Yari Gugliucci in "L'Italia è un paese meraviglioso" - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

Yari Gugliucci in “L’Italia è un paese meraviglioso”

Yari Gugliucci in “L’Italia è un paese meraviglioso”

Questa sera alle ore 20, sul palcoscenico della sala Pasolini saliranno l’attore salernitano e il giornalista Marcello Napoli, per un omaggio a PPP

 

Di GIULIA IANNONE

Che paese meraviglioso era l'Italia. Su Il Tempo del 10 giugno 1973, P.P.Pasolini recensiva a suo modo il libro "Un po' di febbre", di Sandro Penna. Il libro è un pretesto per il regista, poeta, scrittore, giornalsta di Casarsa, per parlare del suo tempo, dei cambiamenti socio antropologici dell'Italia, per rimarcare soprattutto i vizi della mala politica della mala borghesia, dei parvenu che si affacciavano dalle macerie del Dopoguerra all'esplosione del Boom  economico. Che paese meraviglioso era l'Italia è il filo conduttore di una drammatizzazione sul palcoscenico del teatro-sala "P.P.Pasolini", ex Diana, su cui protagonisti saliranno l'attore Yari Gugliucci e il giornalista Marcello Napoli. L'incontro fa parte di quel vasto programma dell'Associazione "Tempi moderni" nell'ambito della mostra "Nostos:Il ritorno", con le fotografia e di Dino Pedriali, in corso a Palazzo Fruscione, sino al 16 marzo. Lo spettacolo inizierà alle ore 20. E' mai stato un paese meraviglioso l'Italia, sarà uno dei due testi letti e interpretati dal giornalsta, chiamato in causa, come tutta la categoria proprio dal grande provocatore friulano, soprattutto in quell'editoriale del 14 novembre 1974: " Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe…", recitato da Yari Gugliucci. Sono solo alcuni dei momenti della piece, dell'evocazione e della moltitudine di sguardi su e di Pier Paolo Pasolini. Pasolini comprende che l'industrializzazione italiana è un processo che si compie attraverso l'espansione del consumo di beni privati piuttosto che di beni pubblici. Di questa grande trasformazione, avvenuta nell'arco di vent'anni, mette in luce il lato oscuro: distruzione delle lingue e culture locali, creazione di un nuovo modello umano fondato sul consumo, fine del sacro e del mondo simbolico tradizionale. È lo «sviluppo» senza «progresso» su cui insiste in alcuni articoli e interviste degli Anni Settanta. «Civiltà» e «cultura», nel significato loro attribuito dalla filosofia tedesca: il consumismo è cultura, ma per Pasolini questa cultura non ha più in sé l'elemento della civilizzazione. La chiave di volta del discorso pasoliniano è il linguaggio, e non potrebbe essere altro, visto che come scrittore è con la lingua che lavora. L'Italia è un Paese dominato dalla piccola borghesia che da un lato ha distrutto la cultura contadina, da cui lei stessa proveniva, e dall'altro rifiuta il modello alto della grande borghesia. Non a caso una delle tesi centrali riguarda la televisione, cui Pasolini attribuisce un compito decisivo nella formazione culturale della piccola borghesia cittadina, estranea sia alla Chiesa, diventata superflua come fonte di valori, sia al comunismo della classe operaia, a lei nemica. A un Nord che si protestantizza, assumendo forma puritane e capitalistiche, Pasolini contrappone il Sud, Napoli e le borgate romane. Tuttavia, negli ultimi anni deve constatare che anche queste plebi premoderne, pagane, riottose al sistema di valori della piccola borghesia, sono state catturate dal sistema del consumo. È interessante soprattutto il discorso che riguarda i giovani, i ribelli e i contestatori del Sessantotto. Come si sa Pasolini è contro di loro; li vede come i Figli che si ribellano ai Padri, i figli della borghesia che rifiutano i valori paterni. Il Sessantotto è per il poeta «la distruzione dell'innocenza», ovvero tout court la «distruzione dei valori». Nella risposta al questionario della rivista "Nuovi Argomenti" dedicata all'estremismo nel 1973, il regista afferma che la modernizzazione è avvenuta rompendo le vecchie norme sociali, tra cui anche i valori della sinistra, i valori della Resistenza; questo è avvenuto non da sinistra, come la maggior parte degli osservatori sembrano credere, bensì da destra: i sessantottini sono i nuovi fascisti, non solo per il loro uso della violenza, ma per il contenuto stesso delle loro richieste. Pasolini interpreta il Sessantotto come una reazione alla modernizzazione, una reazione che non è quella delle classi subalterne, sottoproletari e operai, bensì delle classi medie, intrise di fascismo e antropologicamente propense alla violenza attivistica. In questo quadro egli mette a fuoco anche la mercificazione della cultura e la dissoluzione della letteratura in senso tradizionale. È curioso che nei trent'anni passati dopo la sua morte nessuno o quasi abbia parlato di questo: il corpo dell'Italia, quel Paese meraviglioso sotto il fascismo, di cui scrive all'inizio della recensione del libro di prose di Penna, Un po’ di febbre, è costituito dal suo paesaggio e dai costumi dei suoi abitanti, e in particolare quelli dei ragazzi. Nei due scritti sull'omosessualità inclusi in Scritti corsari lo dice con evidenza: lui non farebbe mai l'amore con un omosessuale, ama solo i ragazzi eterosessuali. Non c'è alcun dubbio che se Pasolini fosse ancora qui con noi si sarebbe scagliato contro i matrimoni omosessuali ritenendoli uno scimmiottamento dei matrimoni eterosessuali, un'altra espressione di quella morale piccolo borghese che ha trionfato grazie alla televisione commerciale, la Tv futura berlusconiana già in nuce nelle descrizioni che il poeta fa del nuovo mezzo di comunicazione di massa. Il lascito più importante di Pasolini non è etico, ma estetico, o meglio: per lui l'etica è un'estetica. La mutazione antropologica è la distruzione dell'ethos perché è la distruzione della bellezza: il corpo dell'Italia e dei suoi abitanti. Pasolini è davvero un autore contro perché è un diverso: usa la propria diversità come una lama affilata contro il conformismo della società e della politica. Le versioni del suo pensiero che sono state date a destra come a sinistra, dai cattolici come dai laici, sono spesso edulcorate perché non fanno davvero i conti con la sua radicalità. Riducono la sua figura a un santino, il Padre Pio della letteratura e della cultura. Per nostra fortuna i suoi scritti sono ancora lì per chi vuole leggerlo davvero nella sua irriducibilità, con tutte le sue contraddizioni e la sua amorosa passione.