Vincenzo Bolognese e il nuovo testamento del violino - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

Vincenzo Bolognese e il nuovo testamento del violino

Vincenzo Bolognese e il nuovo testamento del violino

Questa sera, alle ore 21, il violinista leccese affronterà sul palcoscenico del teatro Verdi l’intero ciclo dei Capricci di Niccolò Paganini

 

Di OLGA CHIEFFI

Rara è l’opportunità di ascoltare a concerto l’integrale dei Capricci paganiniani che l’autore, non eseguì mai in pubblico. Stasera, alle ore 21, sarà il violinista leccese Vincenzo Bolognese pupillo di Felix Ayo a cimentarsi con il Nuovo testamento del violino. Un vortice, un moto irrefrenabile di ampi arpeggi con l’archetto a rimbalzo e sequenze ben sgranate di note doppie. Così, con scatto felino e nemmeno due minuti di virtuosismo musicalissimo, il Capriccio n. 1 entra nel mezzo del discorso e traduce la febbre del discorso compositivo. Il Capriccio n. 2 è basato sul motivo tecnico dei salti di corde con arco sempre elastico e leggero. Cornice del Capriccio n. 3 è un Sostenuto in minore tutto ottave intensamente cantabili e pure trillate. Al centro c’è un Presto in maggiore e a moto perpetuo – va eseguito “legatissimo” – dalle movenze sfuggenti e romantiche. Col suo gonfio do minore che rimanda a quello dei Classici viennesi, il Capriccio n. 4 si stacca dagli altri per ampiezza e taglio sonatistico. Il Capriccio n. 5 apre con una funambolica cadenza: impressionanti scalate in arpeggi sino a non potere salire oltre con la mano sinistra, ripide discese su scale, uno svolazzone cromatico in su e in giù. Il tutto dimostra la formidabile se non patologica flessibilità dell’iperabile mano di Paganini. Il Capriccio n. 6 con i suoi echi mandolinistici e la malinconica ambientazione del tono di sol minore è un poetico tour de force. Nel Capriccio n. 7 piccole cellule, variate con grande dinamismo, risaltano in “picchettato”, mentre nell’Ottavo Paganini sembra fare la parodia, dello studio canonico: un disegno ricorrente a note lunghe con movimento contemporaneo di quartine. Il popolare Nono capriccio è detto ma non da Paganini “La caccia” per l’imitazione di fanfare dei corni e dei flauti. Il brano è l’unico della raccolta in forma di Rondò: il Ritornello “della caccia” e due strofe. Al Capriccio n. 10 – grinta ritmica, vortice di passaggi veloci, di trilli e “picchettati” – fa da contrasto l’Undicesimo che apre e chiude con un commosso, cantabilissimo Adagio poi trascritto per pianoforte da Schumann. Nel disegno nota ripetuta-frase indipendente, il Capriccio n. 12 richiama il Secondo. Qui però l’esecuzione è “legata” e su corde vicine. Nel Capriccio n. 13 una discesa di terze cromatiche scoppietta come una risata; di qui il titolo apocrifo “La risata”. Il n. 14 che è improprio chiamare “La marcia” e suonare con spirito marziale. Nella pagina seguente, viene variata un’enigmatica melodia in ottave (Posato) prima d’una parte in accordi dai “picchettati” fulminei. Il Capriccio n. 16 è tutto immerso in bagno allucinato dove il “forte” marca e rende ansiogene note su cui cadrebbe invece un accento debole. Il n. 17 ha un’introduzione interlocutoria (Sostenuto) cui segue una sorta di Scherzo (Andante) dove bicordi pacati e sornioni dialogano con brillanti volatine. Il Diciottesimo capriccio porta l’indicazione Corrente che qui non ha rapporti con l’omonima danza ma significa “scorrevole”: uno scorrevole richiamo come di tromba. Dopo una breve introduzione, il Capriccio n. 19 vede un ritmico Allegro assai dal continuo avvicendarsi di “piano” e “forte”. Il Capriccio n. 20 è pastorale (risuona una sorta di zampogna natalizia) mentre il n. 21 è un vero e proprio duetto d’opera tradotto strumentalmente col contrasto improvviso d’un intermezzo tutto scale e “picchettati”. Marcato, il Capriccio n. 22 apre con un cantabile incisivo e polifonico e prosegue con un rapido Minore mentre il n. 23 si pone fra i maggiori della raccolta per immaginoso virtuosismo. E’ un degno preludio al 24° ed ultimo Capriccio, l’unico in forma esplicita di Tema con Variazioni e brano che ribadisce ed esalta la consuetudine sette-ottocentesca di chiudere una raccolta nel segno del bizzarro e dell’imprevedibile.