Un rione senza Sindaco e senza Sanità - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

Un rione senza Sindaco e senza Sanità

Un rione senza Sindaco e senza Sanità

Non convince la trasposizione moderna nel nuovo “sistema” dell’opera eduardiana, presentata da Mario Martone al Teatro Verdi di Salerno

 Di OLGA CHIEFFI

 “Se dovessimo cercare nel teatro italiano l’eroe di tutti i giorni, lo dovremmo indicare nel teatro di Eduardo”, così scriveva del drammaturgo napoletano, Corrado Alvaro, ed è racchiusa in questa frase l’essenza dell’universalità della sua opera, ovvero l’ aver visto nei propri protagonisti, napoletani, “l’eroe di tutti i giorni”, il cittadino di qualsiasi paese. Questo vale, naturalmente, anche per il “Sindaco del Rione Sanità”, tornato undici anni dopo quello “filologico” di Carlo Giuffrè, sul palcoscenico del teatro Verdi di Salerno, per mano di Mario Martone e degli attori del Nest. Mario Martone traspone l’opera eduardiana nei luoghi di camorra attuali, dalla Sanità ci si sposta a San Giovanni a Teduccio, il protagonista, Antonio Barracano non è il boss settantacinquenne che vede il fine carriera e il dovuto passaggio del testimone, ma un boss quarantenne, che cerca di eliminare le contese, le vendette trasversali, nascondere i feriti, evitare di accendere riflettori sui fatti di sangue, facendo ricucire in casa propria le vittime. Ma la differenza tra l’Antonio Barracano del testo e quello schizzato da Martone è incolmabile. Le “ragioni” stigmatizzano le due figure di boss, apparentemente uguali, poiché il testo quasi non è stato toccato. Se l’Antonio Barracano originale, può dall’alto della sua esperienza di gangster in America e capocamorra a Napoli, nel rione di massimo rispetto, parlare di denunzia dell’insufficienza, della corruzione, dell’irrisorietà dell’amministrazione ( “La società mette a frutto l’ignoranza perché sui delitti e sui resti che commettono gli ignoranti si muove e vive l’intera macchina mangereccia della società costituita”) e, affermare da che mondo è mondo, la scoperta più grande è stata la carta, la quale “diventa busta quando prima di chiuderla ci si mettono dentro i biglietti di banca che pure sono di carta” e in un mondo in cui non c’è giustizia sarà intelligente colui che saprà organizzarla per proprio conto, coi propri mezzi, a servizio della collettività degli infimi, divenendo così personaggio “universale”; nel sistema attuale di camorra, in cui Martone cala l’opera, un boss non potrà mai pensare così, poiché esso stesso “ignorante”. Il mondo camorristico odierno è ben lontano da quello in cui agiva il Sindaco, abbiamo oggi il boss in doppio petto seduto in comune e quello nel bunker sotterraneo, in cui il kitsch regna sovrano, che certo non rimette la vita, dopo aver obbligato un padre disamorato al compimento dei suoi doveri paterni, vestendo quasi i panni del brechtiano Azdak, il quale, una volta nominato giudice, amministra ogni processo con uno spirito anarchico, forse perchè ignora le trame della legge, oppure perché sa essere malvagio e interessato oltre i limiti, o semplicemente perché segue l’intuito tramutando il tribunale nello spazio più appropriato per lo svolgimento di una commedia popolare. Scenografia in linea con i gorghi neri rivestiti d’oro della celebre serie tratta dal libro di Roberto Saviano, un po’ di rap, nonché l’oscuramento del raggio di speranza finale, quello che illumina l’Antonio Barracano originale che muore in pace, liberandosi del suo corpo, e liberandosi del suo logorante potere che esercita da troppo tempo e quello del medico, che non potrà più scrivere il suo verdetto in fede, responsabilizzando, invece, l’autore del delitto. La differenza tra i boss che colpiscono oggi commettendo omicidi mafiosi, non motivati da una logica strategica, esclusivamente da impulso, raptus scatto e vendette, e il Sindaco di Rione Sanità che vede nella visione di Raffaele Cutolo la propria realizzazione, nello spettacolo di Martone si tocca con mano. Forse, la rivoluzione in scena avrebbe dovuto essere realizzata per intero, come quella genialmente effettuata da Antonio Latella per “Natale in casa Cupiello”, anche se la ripulitura del testo e i ritmi scenici scelti dal regista hanno convinto in pieno. Un plauso va all’intera compagnia del Nest a cominciare da Francesco Di Leva, Massimiliano Gallo e Giovanni Ludeno, non lontano dalla recitazione di Tony Servillo, protagonisti di questo scontro-incontro di tra generazioni ben lontane da quella eduardiana, unitamente ad Adriano Pantaleo, (Catiello), Giuseppe Gaudino (Vicienzo ‘O Cuozzo), Daniela Ioia (Armida), Gennaro Di Colandrea (Pascale ‘O Nasone), Lucienne Perreca (Rita) Mimmo Esposito (Gennarino), Morena Di Leva (Geraldina), Armando De Giulio (‘O Nait), Daniele Baselice (Peppe Ciuciù), Ralph P che in scena quale ‘O Palummiello, ha scritto anche le musiche dello spettacolo, e a alla splendida voce di Immacolata, Viviana Cangiano, reale trait d’union tra l’Antonio Barracano di ieri e quello di oggi.