Un pianoforte tra classicismo e romanticismo - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

Un pianoforte tra classicismo e romanticismo

Un pianoforte tra classicismo e romanticismo

Il pianista Aldo Roberto Pessolano sarà ospite questo pomeriggio alle ore 17 dell’Associazione Culturale Cypraea, nella cornice del Salone Bilotti dell’Archivio di Stato di Salerno

 

Di OLGA CHIEFFI

Continua, questo pomeriggio, nel Salone Bilotti dell’Archivio Storico di Stato, alle ore 17 la stagione concertistica dell’Associazione Cypraea, presieduta da Giuseppina Gallozzi. La presidente pianista presenterà all’accorto pubblico della Cypraea il ventenne collega Aldo Roberto Pessolano gemma dei magisteri di Maria Rosaria Falzarano e Giancarlo Cuciniello, il quale ha scelto di principiare il pomeriggio musicale con la Sonata di Ludwig Van Beethoven n°30 op.109, composta nel 1820. In questa, che è la prima del gruppo delle ultime tre Sonate pianistiche di Beethoven, si definiscono nel modo più evidente taluni connotati del cosiddetto terzo stile di Beethoven: assoluta libertà fantastica che trascende i limiti della tradizionale forma di sonata; tendenza ad una rinnovata linearità del discorso per cui l’armonia da un lato viene costituita spesso come risultante di moti contrappuntistici, mentre dall’altro si dissolve in un disegno arabescato, per stemperarsi o polverizzarsi altre volte in atmosferiche fluttuazioni. Alle più audaci arditezze morfologiche e sintattiche si contrappone in queste tarde opere beethoveniane il ricorso frequente alle formule più schematicamente convenzionali, che appaiono qui in una singolare funzione privativa, poiché si intuisce che esse sono adoperate per espellere dalle immagini sonore ogni residuo gesto drammatico, indifferenziando in un certo senso la materia musicale e conferendole un senso dì superamento, di liberazione da ogni passione contingente. Ed è in questa sublimazione lirica delle risultanti emotive della drammatica esperienza umana di Beethoven che si devono ravvisare i risultati espressivi di questi suoi capolavori, senza ricorrere a nessuna di quelle interpretazioni e metafore con le quali gli esegeti hanno cercato di definirne verbalmente le qualità poetiche, parlando della Sonata op. 109 come di una «visione aerea, soave, degna di accompagnare il corteo di una fata» (Wartel). Seguiranno le due Rapsodie op.79 di Johannes Brahms, datate 1880, la prima, in Si minore, è una sintesi di allegro di sonata e di scherzo con trio, una sintesi che fa pensare a Liszt e un perfetto allegro bitematico e tripartito, la seconda, in sol minore, una chiave per penetrare l’immaginario sonoro del genio di Amburgo, con quel suo stile inconfondibile: addensante, intenso, intriso di colori e sfumature contrassegnate da accordi dai tratti talvolta scultorei, fortemente elaborativo, a un tempo connotato da un profilo melodico accidentato e straordinariamente progrediente, narrativo, fantasioso. Finale affidato alla seconda sonata la Sonata in Si bemolle minore op.35 composta da Fryderyk Chopin tra il 1837 e il 1839. Quando Schumann ebbe modo di esaminare quest’opera ne rimase letteralmente sconvolto, benché una volta di più affascinato dalla musica del genio polacco (“Quanta bellezza nasconde questo pezzo!”) non potè nascondere l’imbarazzo che questa pagina rivoluzionaria aveva suscitato in lui: “Un capriccio o un’audacia sotto la denominazione di Sonata fa contrabbando dei quattro più folli figli del suo spirito”; la Marcia funebre “ha persino qualcosa di repulsivo, al posto suo un Adagio in re bemolle, per esempio, avrebbe fatto un effetto incomparabilmente più bello”. La sonata si apre con un Grave – Doppio movimento, con il suo tema principale nervoso, spezzettato, singhiozzante, contrastante fortemente con il secondo elegiaco. Lo Scherzo seguente ha una prima sezione aspra e irrequieta, contrapposta ad un trio basato su di un motivo di valzer tratto da una canzone tradizionale “Niepodobienstwo” (l’impossibilità). Il terzo movimento è probabilmente il brano di Chopin più noto in assoluto, la Marcia Funebre, con il suo tema di desolante mestizia che si evolve sopra un “ostinato” costituito dall’alternarsi di due accordi. Il finale è la parte più sconcertante della Sonata: in sostanza un breve studio di agilità a mani pari, affatto atematico e privo di accenti d’espressione, “un temporale in lontananza, un rumore sordo ad annunciare il definito oblio” (Milan Kundera “L’arte del romanzo”).