Tosca: quando il diavolo ci mette la lingua - Le Cronache
Spettacolo e Cultura Musica teatro

Tosca: quando il diavolo ci mette la lingua

Tosca: quando il diavolo ci mette la lingua

 

Un’ombra di delusione sulla produzione raffazzonata del capolavoro pucciniano, che ha chiuso la prima parte della stagione lirica del teatro Verdi di Salerno. Stasera ultima replica alle ore 19

 

Di OLGA CHIEFFI

 

Non lucion, né lucevan le stelle alla prima di Tosca, che questa sera, con l’ultima replica, prevista per le ore 19, chiuderà la prima parte della stagione lirica del Teatro Verdi di Salerno. Non rilucono poiché non è ammissibile che si “monti” un’opera in sette prove, che il regista abbia a disposizione unicamente tre incontri col cast, né che la prima donna, sostituita per tutte le prove dalla cover, si presenti solo mezz’ora prima di una generale anticipata, poiché il direttore musicale Daniel Oren, per l’intera produzione ha inteso dividersi tra la Royal Opera House di Londra, dove in contemporanea ha diretto l’Andrea Chénier di Umberto Giordano e il nostro massimo. La Tosca salernitana è rimasta, così, appena sgrossata, sbozzata, con un importante lavoro di levigatura ancora da effettuare. Nella “prima” si è toccato con mano l’incompiutezza delle prove di regia, poiché la protagonista Maria Josè Siri, non aveva affatto la padronanza della scena e del palcoscenico. Non si è potuto non fare il confronto con la produzione del 2016, che schierava nel ruolo della diva Fiorenza Cedolins, Floria Tosca per eccellenza e in quello di Scarpia un perfetto Ambrogio Maestri, mentre Mario Cavaradossi fu, come quest’anno, Gustavo Porta. In una regia tradizionale, come ama e prescrive Daniel Oren, per il suo teatro, Michele Sorrentino Mangini, già regista nella scorsa stagione di un interessante Barbiere rossiniano, non ha voluto far mancare la sua zampata, realizzando il tableaux vivant de’ “Il quarto stato” di Pellizza da Volpedo, nella scena del Te Deum, in cui compare praticamente l’intera società romana, dai mendicanti (Mangini avrebbe, forse, potuto meglio realizzare un quadro precedente del pittore piemontese, “Ambasciatori della Fame”)  alle massime autorità ecclesiastiche, passando per la fuga di Tosca che si dilegua dallo studio di Scarpia, in cui campeggia un grande camino che ricorda la bocca dell’ inferno, trascinandosi il lungo e pesante manto di velluto, fino all’ effetto cielo stellato che pervade l’intero teatro e il gran finale con il particolare della statua di San Michele Arcangelo che schiaccia il diavolo, la cui lingua e occhi diventano rossi, dopo la fucilazione di Cavaradossi e il salto di Tosca. A scomodare la Arendt per parlare di “Banalità del male”, in questo caso di banalità saccente nella rappresentazione del male si peccherebbe di narcisismo, ma il kitsch al Verdi, dopo l’esecrabile “Vedova allegra” firmata da Vincenzo Salemme e il “Barbiere di Siviglia” da mille e una notte di Lorenzo Amato è giunto inatteso, al di là dell’ottima realizzazione dei light designer Alessandro Papa e Nunzio Perrella, della cappella di Sant’Andrea della Valle, valorizzando il palcoscenico profondo del nostro teatro, anche con la particolarità della polvere nel raggio di luce proveniente dal rosone, unitamente al sempre raffinato scenografo Flavio Arbetti.   Maria José Siri, non è la Floria Tosca per Daniel Oren, il quale, quando è in vena, riesce ad allargare infinitamente la tavolozza, i colori e le sfumature dell’orchestra, pur mantenendo le sua caratteristica direzione fatta di scatti imprevedibili, ripiegamenti intimistici, ombre sinistre. La Siri è un soprano lirico-spinto, con acuti dal Si al Do anche piacevoli e sonori, ma in Puccini non basta il gran volume, la gran voce, se poi si è spigolosi e avari di mezze voci, piani, filati. Una Floria Tosca, la Siri, che ha avuto ragione sia del barone Scarpia di Sergey Murzaev, che di Gustavo Porta, del suo Mario, che ghermisce a fatica l’acuto, con una voce che va verso il bronzo, causa usura verista e dinamiche che non conoscono che il forte e il mezzoforte, pingendo un personaggio legnoso in scena e di una superficialità patente. Dinamiche che, purtroppo, si sono state riscontrate anche nella lettura di Daniel Oren, che si è dovuto adattare al cast e alle intenzioni musicali dei tre protagonisti, confezionando una esecuzione da parte dell’orchestra che ha, come non mai, coperto i cantanti, soprattutto nel dialogo tra Scarpia e Cavaradossi, con il la cantata fuori scena. Scarpia – Murzaev, il vero protagonista, tratteggiato dal regista quale essere abietto ha dato un’ottima impressione dal punto di vista della “prestanza” vocale, ma, come gli altri, non possiamo lodarne il fraseggio, le arti teatrali, l’uso di colori e sfumature, non essendo scampato nella parte centrale di “Tre birri e una carrozza” in alcuni cali di intonazione e in alcune “incrinature” nell’emissione. Fanno ormai parte del colore e della polvere antica del palcoscenico del Teatro Verdi di Salerno, Carlo Striuli, che ha vestito i panni di Cesare Angelotti, Angelo Nardinocchi, Enzo Peroni e Maurizio Bove, che hanno ricoperto i ruoli del sagrestano, Spoletta e Sciarrone, mentre il carceriere è stato Massimo Rizzi e nel ruolo del pastorello l’eccellente Aysheh Husainat.Il coro, preparato con la consueta professionalità da Tiziana Carlini, è stato per l’occasione completato dal Coro di Voci Bianche guidato da Silvana Noschese. Applausi per tutti, bis delle due arie “Vissi d’arte” e Lucevan le stelle” e lancio di rose dal palco lettere.