SPECIALE TERREMOTO XXXIX Alfonso Menna e gli zoccoli di Vincenzina - Le Cronache
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SPECIALE TERREMOTO XXXIX Alfonso Menna e gli zoccoli di Vincenzina

SPECIALE TERREMOTO XXXIX Alfonso Menna e gli zoccoli di Vincenzina

Di GEMMA CRISCUOLI

Credo di non aver mai provato un senso di terrore paragonabile a quello avvertito quella sera. Avevo dieci anni e in compagnia di mio fratello ero andata a casa dei miei nonni. Tra noi esisteva un legame speciale. Passare il tempo in loro compagnia era una gioia e una consolazione. Discutere di tutto con mio nonno, che ha rappresentato una guida nella mia vita anche nei rarissimi momenti di conflitto che abbiamo vissuto, era un’occasione preziosa per osservare le cose da una nuova prospettiva. Le mie compagne di scuola mi canzonavano: “E di che diavolo parlate, di Garibaldi?”, ma la sua vivacità intellettiva non temeva lo scorrere degli anni: il mio amore per “I promessi sposi”, per esempio, fu ispirato da lui (“Altro che sagrestia!- diceva- qui c’è l’Italia di oggi e il mondo intero”). Mia nonna, minuta e adorabile, mi accoglieva con una dolcezza che ho sempre rimpianto. Vederli seduti mano nella mano mentre mi raccontavano il loro passato resta uno dei ricordi a cui tengo di più. Andai in cucina a prendere una bottiglia d’acqua e all’improvviso la finestra si spalancò con quello che sembrava un pauroso muggito, come se il vento volesse ingoiare ogni cosa al suo passaggio. Tutto iniziò a muoversi con una violenza che toglieva il respiro e non potevo fare a mano di gridare; mi sentivo perduta. Arrivai a  fatica nel soggiorno e il buio che calò di colpo ingigantiva l’angoscia. Quei momenti mi sembrarono eterni e quando tornò la calma non avevo il coraggio di muovere un passo. Ricordo i grandi occhi scuri di Vincenzina, la cameriera, la meno inquieta tra noi. Capii solo tempo dopo cosa le dava quel coraggio. Aveva avuto un’adolescenza poverissima: lavorava scalza nei campi per non consumare l’unico paio di zoccoli che aveva. Le difficoltà che aveva attraversato l’avevano condotta a un fatalismo che era al tempo stesso la sua debolezza e la sua forza. Mio nonno ci esortava a metterci in salvo, ma non voleva abbandonare la sua abitazione (gli pareva un tradimento e lo convincemmo a fatica). La stessa testardaggine di mio padre, medico legale, che infatti non si mosse: “Dopo oltre vent’anni di camera mortuaria, credete che qualcosa possa spaventarmi?”. Mio fratello si caricò mia nonna sulle spalle e scendemmo i quattro piani con la massima circospezione. L’unico momento felice di quel periodo fu la permanenza dei miei nonni da me. Visto che il buon Bukowski ha ragione da vendere nello scrivere che siamo sottili come carta e quindi pronti a essere spazzati via, solo chi amiamo rende tutto questo sopportabile.