Sono trascorsi ormai otto anni dalla scomparsa di Vincenza Basso e del giovane domestico di nazionalità indiana William Jeeth Sing, detto “Sonu”. Il caso, che ha suscitato l’interesse dei media nazionali e l’attenzione del programma “Chi l’ha visto” , ha sconvolto e continua a sconvolgere la quotidianità dei parenti che, dopo anni, continuano a fare i conti con quei tasselli mancanti che tardano a salire a galla, forse per il silenzio di chi sa e non parla o per qualche indizio sfuggito sin dai primi giorni delle indagini. Era il 12 luglio del 2007, quando è stata persa ogni traccia dei due, dalla tenuta di Cappelle, frazione del salernitano, dove la signora Basso viveva con il fidato collaboratore domestico, considerato parte della famiglia. Tanti i dubbi e tante le piste varate dagli inquirenti e dall’avvocato Giuliana Scarpetta; dall’allontanamento volontario – tesi quasi subito scartata – al rapimento per estorsione – anche questa – ipotesi poco convincente dato che alla famiglia non è mai stata avanzata una richiesta di riscatto. A gettare tutt’altro che acqua sul fuoco, la questione della clandestinità e del traffico dei permessi di soggiorno, strada investigativa aggiunta alla lista delle ipotesi. Il tempo passa ma la soluzione del giallo sembra ancora lontana. Una donna “amorevole”, questo il ricordo affettuoso di uno dei tre figli della signora Vincenza, Salvatore Memoli, che abbiamo intervistato a pochi giorni dall’ottavo anniversario della misteriosa e tragica scomparsa. Sono passati ben otto anni da quel giorno di luglio del 2007. Sono arrivate delle risposte o soltanto più domande? «Ora ci sono più domande. Lo stato d’animo è sempre lo stesso, inalterato. Perché siamo di fronte ad un mistero che presenta più muri che prospettive e risoluzioni». Ci sono state nuove dichiarazioni o ancora c’è silenzio da parte di chi ha visto o sentito qualcosa? «No, quelli che avrebbero visto non hanno detto nulla di più, né a noi né alla polizia che ha fatto tutto quello che era possibile. Anche se io sono convinto che le indagini potevano e dovevano andare in un altro senso, ma non è un giudizio negativo contro nessuno. Porto gratitudine a tutti quelli che si sono impegnati per la soluzione del caso». Quindi il muro di silenzio ancora non è stato abbattuto? «C’è ancora silenzio. Adesso c’è un aggravante: è come se il caso fosse un diventato un fatto privato della famiglia e non più un fatto che interpella le istituzioni e la città, ma attenzione, questo non per i cittadini. La città ha fatto in modo da rimuovere dalla coscienza questo argomento e su questo c’è amarezza». Amarezza perché qualcuno avrebbe potuto fare di più? «Io con questo sentimento sono fortemente in difficoltà, perché ho ricevuto la solidarietà di tutta la città e, in primo luogo, della stampa che mi è stata vicina; ma devo dire anche grazie ai magistrati e alle forze di polizia, in particolare ai carabinieri. Ho certamente avuto delle risonanze, ma tutto questo sforzo non ha prodotto neanche una scia di conoscenza dei fatti reali. L’unica cosa che ho aggiunto personalmente è stato il rapporto con la famiglia del giovane indiano e questo mi consola. Sono costantemente e, potrei dire, quasi quotidianamente in contatto con la famiglia di Sonu, che, ricordiamoci, soffre dall’altra parte del mondo come soffriamo noi». Quindi si è riusciti a trovare una via di comunicazione con l’India? «Si, una parte dei dubbi era proprio incentrata sul ragazzo, su dove sarebbe potuto andare e cosa avrebbe potuto fare. Qui parliamo di due persone scomparse. Sarebbe ingeneroso, anche se si tratta di mia madre, sottovalutare o disconoscere il valore umano di un’altra esistenza, quella del giovane indiano. Sono due persone che non si trovano , quindi la ricerca è su due persone. Certo, a mia madre sono legato da vincoli affettivi, ma noi siamo ugualmente interessati a sapere cosa è successo, a tutti e due». Qual è il ricordo che ha di sua madre? «Mia madre era una donna amorevole, era una “magistra” della famiglia : lei faceva la famiglia, la costruiva. Tutto era fatto per noi, ma anche per i suoi fratelli e tutto il gruppo familiare; lei riuniva tutti. Il mio ricordo è di una persona che conservava ricordi, memorie e trasmetteva anche insegnamenti. Tutto questo manca e mancherà sempre». Rossella Ronca
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