Salerno regina tra palcoscenico e rettangolo di gioco - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

Salerno regina tra palcoscenico e rettangolo di gioco

Salerno regina tra palcoscenico e rettangolo di gioco

 

Intenso il fine settimana del pubblico salernitano diviso tra teatro e calcio, uniti nell’Arte

 

Di OLGA CHIEFFI

Festa grande sabato sera per la promozione della Salernitana in B, una festa che è andata ben oltre il “vamos corriendo” per le strade della città con bandiere e fumi colorati, un rondò di emozioni tra sport, musica e teatro, iniziato venerdì sul palcoscenico del Giullare, che ha ospitato il secondo appuntamento di GeoGrafie ideato da Vincenzo Albano. In scena c’era Lorenzo Praticò, autore e attore di “Spingi e respira”, una corsa in bicicletta durante la quale passa avanti il film di una vita intera. Spingi e respira sono le parole guida delle partorienti, spingi e respira sono l’incitamento per attaccare una salita e fujre veloce e leggero, con le ali ai piedi come quelle ricamate sulla maglia. Un taglio dà la vita, quello del cordone ombelicale, travaglio, dolore, mancanza, attesa, sudore e lacrime, un urlo è il segno della gioia, una fatica d’amore, come quella del genitore ciclista che comincia a correre e vincere solo per Sara la sua fidanzatina spentasi in giovane età, che rivive metro dopo metro, nella sua bicicletta rossa. Il palcoscenico è un luogo non luogo, lo è anche il rettangolo di gioco, specchio della vita, latore di linguaggio di “nascita”, un cunto, quello di Praticò che molti hanno avuto la fortuna di provare, anche in sport diversi dal ciclismo, che non si lascia dire in altra lingua, ma in essa stessa si mostra, di un mostrarsi che spegne la voce e lascia un’ombra, quell’ombra che abbaglia, che incuriosisce, forma misticità, è portatrice di aria-non aria, con il suo dire, transeunte, terribilmente instabile, privo di terreno e tuttavia, resistente, voluminoso e, in quanto non si svolge in un tempo cronico, ma ci pone alla ricerca del “tempo pieno”, il tempo dell’arte, ove l’istante non è più. L’istante di Lorenzo Praticò, di ogni sportivo, dei musicisti, della regina Diana Damrau che sabato sera “in”cantava il pubblico del teatro Verdi, nello stesso momento in cui il calciatore Davide Moro elevava da tenore il suo affettuoso “Nessun dorma” allo stadio Arechi, è infinito, il suo istante brucia il tempo, il suo destino umano resta sospeso all’aorgico, nessuna forza umana può comprenderlo in una definizione, e, per conseguenza, il confine tra gli opposti logici che delimitano in ogni momento la possibilità stessa di pensare ragionevolmente (possibile-impossibile, visibile-invisibile, male-bene, senso-non senso, si-no, verità-finzione), resta infinito, indecidibile, indeciso, sospeso. Il soprano Diana Damrau in duo con il basso Nicolas Testè, suo marito, sostenuta da una Orchestra Filarmonica Salernitana, guidata da uno scherzoso Daniel Oren, che ha aperto la campagna acquisti in vista del concerto del 14 maggio in Vaticano, dell’ Andrea Cheniér titolo principe del cartellone e del Barbiere di Siviglia alle spezie d’Oriente, ha posto un prezioso rubino sulla festa granata. La Damrau ha spaziato tra le gemme del bel canto italiano, dal Bellini de’ “I Capuleti e i Montecchi” al Donizetti di Lucia di Lammemoor, sino ai Puritani  con il delirio di Elvira, che è risultata la pagina più bella dell’intera serata, in cui ha tirato fuori tutte le sue abilità di coloratura e agilità di forza, prodigandosi in un canto sinceramente toccante. Grande spettacolo in Sonnambula con le due arie più amate “Ah! Non credea mirarti” e “Ah! Non giunge uman pensiero” in cui la linea di canto è risultata piacevolmente morbida ed omogenea, soprattutto nel passaggio di registro. Fraseggio espressivo e grande tecnica sugli acuti che pur essendo ben sostenuti, non sempre hanno camminato sul velluto. Divario abissale con il basso Nicolas Testè con il quale ha inanellato qualche duetto come nei Masnadieri e in Luisa Miller, il quale ha offerto il meglio di sé nel ruolo di Ferrando nel racconto del primo atto del Trovatore. Teatro letteralmente in delirio per la cabaletta di Violetta e lancio un po’ azzardato di rose bianche dal secondo piano. Due i bis tutti pucciniani, “Vecchia zimarra” per Nicolas Testè e “O mio babbino caro!” per la Damrau. Orchestra in grande spolvero, soprattutto tra gli ottoni con l’arrivo della elegantissima prima tromba Fabiano Cudiz e il suono del corno di Vladimiro Cainero, ora dai bei riflessi argentei. Pagine, quelle eseguite da Diana Damrau, che ascoltate in una serata “calcistica” ci hanno fatto pensare che, seguendo i dettami dell’estetica musicale contemporanea, secondo cui il termine “musica” indica una famiglia di eventi sonori nella quale sono compresi suoni, rumori e silenzio, che sia musica il piede che impatta il pallone e, provando a invertire i termini dell’equazione, che l’interpretazione delle agilità belliniane e le affannose fiamme del suo crescente finale, possano maturare agilmente atletiche, come una vincente discesa a rete dei nostri granata.