Riflessione sul memoriale del Comandante di Auschwitz Rudolf Hoss - Le Cronache
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Riflessione sul memoriale del Comandante di Auschwitz Rudolf Hoss

Riflessione sul memoriale del Comandante di Auschwitz Rudolf Hoss

Corradino Pellecchia ha firmato l’adattamento drammaturgico dell’autobiografia scritta qualche giorno prima dell’esecuzione. Presso gli spazi di Art.Tre la performance di Dario Riccardi, Mario De Caro ed Alfredo Marino

Di Olga Chieffi

Il documento che per la prima volta ha illuminato dall’interno la mentalità e la psicologia dei nazisti, e la storia e il funzionamento delle officine della morte,  il memoriale autobiografico di Rudolf Hoss, ufficiale delle SS, fu per due anni il comandante del più grande campo di sterminio nazista, quello di Auschwitz, in cui vennero uccisi più di due milioni di ebrei, sarà al centro del settimo omaggio alla memoria delle vittime della Shoah, che si è svolto presso gli spazi dell’Associazione Art.Tre in vicolo San Bonosio in Salerno. Il famoso memoriale, praticamente la sua difesa nel processo dopo la inevitabile condanna a morte sentenziata in un tribunale polacco alla fine della guerra, fu scritto in carcere, in attesa dell’esecuzione, un documento impressionante che ci consente di cogliere dal vivo l’insanabile contraddizione tra l’enormità dei delitti e le giustificazioni addotte. Corradino Pellecchia ne ha firmato l’adattamento affidandolo a Dario Riccardi, Mario De Caro ed Alfredo Marino. “Hoss, scrive Primo Levi, non era fatto di una sostanza diversa da quella di qualsiasi altro borghese di qualsiasi altro paese; la sua colpa, non scritta nel suo patrimonio genetico, né nel suo essere nato tedesco, sta tutta nel non aver saputo resistere alla pressione che un ambiente violento aveva esercitato su di lui, già prima della salita di Hitler al potere… Si spendono oggi molte lacrime sulla fine delle ideologie; mi pare che il suo libro di memorie dimostri in modo esemplare a che cosa possa portare un’ideologia che viene accettata con la radicalità dei tedeschi di Hitler e degli estremisti in generale. Le ideologie possono essere buone o cattive, è bene conoscerle, confrontarle e cercare di valutarle; è sempre male sposarne una, anche se si ammanta di parole rispettabili quali Patria e Dovere”. E, allora, la memoria è il miglior antidoto a quei rigurgiti di intolleranza e violenza, egoismo, mancanza di rispetto per l’altro, abdicazione del senso morale, che sembrano di nuovo albergare nel mondo contemporaneo; il miglior rimedio per “far crescere comprensione e amore”. Non c’è una sola riga di “Comandante ad Auschwitz” in cui sia possibile leggere la benché minima flessione rispetto a questa posizione; nessun momento della sua vita viene raccontato se non come dettato da una rigida disciplina e dal dovere dell’obbedienza, costi quel che costi. Rudolf Höss parla di sé con una freddezza agghiacciante e con un distacco che sarebbe difficile da giustificare perfino se raccontasse la vita di qualcun altro. Glaciale nei confronti di se stesso, della famiglia, della guerra, di Auschwitz, la più potente macchina dello sterminio di massa di cui è stato l’ideatore, l’organizzatore, il realizzatore, il contabile. Avrebbe potuto essere un esecutore mediocre e invece no, ha fatto in modo di diventare il migliore, il più efficiente, il più capace di trovare sempre la soluzione ottimale rispetto all’obiettivo a lui assegnato. Il diario di Höss non è certo un’opera letteraria e non nasce nemmeno con quell’intento. Il resoconto dei fatti salienti è in ordine strettamente cronologico, ma sono proprio lo stile quasi del tutto inesistente, la descrizione dei fatti oggettiva, ma banalizzata e priva di coinvolgimento emotivo attraverso la quale gli avvenimenti sono ricostruiti come altro rispetto alla loro effettiva natura, che conferiscono a queste pagine un’aria spettrale, anzi minacciosa. Minacciosa, perché siamo di fronte al racconto di fatti storici realmente accaduti, per quanto questo possa sembrare incredibile, per opera di persone normali. ‘Normali’ significa non fatte di sostanze diverse da quelle di tutti gli altri, non riconoscibili per una predisposizione genetica che possa giustificare atteggiamenti altrimenti impossibili. Rudolf Höss ha eseguito degli ordini, è vero, ma l’obbedienza cieca e incondizionata è una scelta che implica una responsabilità attiva. Rudolf Höss rimane un esempio di quanto non ci sia stato nulla di straordinario nella Germania del periodo nazista; chiunque potrebbe diventare “Comandante ad Auschwitz” se le condizioni lo permettessero ancora.