“Pochos”, un calcio all'omofobia - Le Cronache
Spettacolo e Cultura teatro

“Pochos”, un calcio all’omofobia

“Pochos”, un calcio all’omofobia

di Gemma Criscuoli

Nel capolavoro di Blake Edwards, “Victor Victoria”, il protagonista chiede al suo braccio destro come abbia potuto conciliare la sua omosessualità con l’immagine di duro offerta nello sport e la risposta lascia pochi dubbi : “Se non vuoi che gli uomini ti chiamino checca, tu ci diventi giocatore brutale e figlio di puttana”. È contro questa mentalità che si batte “Pochos”, lo spettacolo, scritto e diretto da Benedetto Sicca, proposto con successo presso il Teatro Ghirelli. L’allestimento prende le mosse da una storia vera: una squadra di calciatori gay, chiamata appunto Pochos, scugnizzi in spagnolo, in omaggio a Lavezzi, nasce da una chat di appuntamenti e deve fare i conti con le proprie scelte a seguito della notorietà raggiunta dopo una conferenza stampa. Lontano dalle secche del dramma a tesi come dallo spettro del patetico e della retorica, in un equilibrio pressoché perfetto tra passione e intento programmatico, la messinscena si affida a Francesco Arico’, Riccardo Ciccarelli, Emanuele D’Errico, Dario Rea e Francesco Roccasecca, interpreti coinvolgenti e padroni del ritmo narrativo. La commozione, il dolore, l’ironia, la dimensione individuale e collettiva di quel faticoso percorso che è la capacità di accettarsi non perdono una loro umana credibilità neppure quando si affaccia la tentazione del virtuosismo. La mascolinità a senso unico da sempre legata al calcio è ribaltata, accogliendo l’essenza dello sport: comprendere i propri limiti e le proprie possibilità, muovendosi alla pari con i compagni, che diventano di volta in volta guide, complici, occasioni per guardarsi dentro senza remore. Di qui l’accompagnamento musicale, l’attenta osservazione dagli spalti e l’impersonare a turno le figure incontrate, ogni volta che un personaggio narra il modo in cui si è rivelato a se stesso e agli altri. Poiché infatti il conformismo costringe a vivere la solitudine, l’emarginazione, l’esclusione di chi ha la sola colpa di essere diverso, la squadra si muove su un piano metateatrale, così che tutti e ognuno si misurino con la necessità di difendere la propria libertà. L’elenco martellante di episodi di omofobia, recitato mentre il gruppo si accanisce su uno solo, ricorda come la persecuzione di chi non è etero non sia né propaganda né esagerazione. Non manca una visione satirica del problema : lo psicologo che ostenta saggezza o la madre che si offre ai riflettori, accettando con enfasi il figlio, che non aveva precedentemente accolto, alludono infatti a quella cattiva coscienza che pretende di liquidare la questione attraverso stereotipi che non giovano a nessuno. Il mondo calcistico ha inoltre le sue responsabilità: perché nessun giocatore della serie A fa coming out? Gli attori, che coinvolgono sistematicamente gli spettatori, propendono per “un’antologia sinaptica”, ovvero una serie di scene che esulano dalla coerenza di una storia, ma accendono stimoli in chi osserva. In una parola, la strategia dell’algoritmo, che stavolta però è il corpo dell’interprete. Invitare a dichiarare a un microfono la propria posizione nella scheda di Kinsey sui comportamenti sessuali (dichiarazione accolta da un tifo da stadio) e mostrare due attori nudi mentre si fanno confidenze sotto la doccia non sono scelte gratuite: i pregiudizi sono coriacei. Solo un teatro che sia spazio libero può sgretolarli, aiutando a comprendere che esisteranno sempre più persone che categorie.