Nostalgia dei partiti - Le Cronache
Editoriale

Nostalgia dei partiti

di Alfonso Conte*

La nostalgia dei partiti della Prima repubblica è un sentimento profondamente condiviso da tanti, finanche da coloro i quali all’epoca furono aspramente critici (e poi profondamente delusi da un rinnovamento solo annunciato). È comprensibile, quindi, che ancor più avvertano la loro mancanza coloro i quali di quei partiti furono militanti appassionati nei migliori anni della loro vita, dirigenti, esponenti di primo piano. Come Vincenzo De Luca, il quale recentemente, in occasione della presentazione del libro di Goffredo Bettini, ha ricordato con rimpianto, riguardo al suo Pci, l’autorevolezza dei leader, le modalità di selezione dei dirigenti, la chiarezza degli obiettivi, il sentito sostegno espresso dalla base. E, pensando al Partito Democratico di oggi, il quale dovrebbe essere il principale erede di quella tradizione, appare difficile non essere d’accordo. Tuttavia, a non convincere è la forma che, secondo De Luca, il partito dovrebbe assumere per produrre tali risultati. Non perché il sindaco abbia evitato di spiegarlo durante l’incontro pubblico al quale ho fatto riferimento, ma perché fin troppo chiaramente lo ha testimoniato negli ultimi venti anni di gestione del partito a livello salernitano. Il Pci di Togliatti e Berlinguer basava la propria esistenza sul centralismo democratico, vigilando quasi a livello maniacale sui pericoli di deviazionismo e frazionismo. Ma si era negli anni della guerra fredda; e, inoltre, nelle sezioni ci si confrontava quotidianamente, il rapporto con gli studiosi e gli artisti era vivace, i centri culturali sfornavano riviste e promuovevano iniziative. Funzionari ed amministratori degli enti locali erano scelti per cooptazione, sicché la capacità di adeguarsi alle direttive superiori diveniva una qualità indispensabile. Ma ad emergere erano quasi sempre persone dall’alto profilo culturale e professionale, riconosciute dagli iscritti come i più idonei a svolgere tali incarichi. A tutti i livelli i congressi avevano la funzione di conferire il crisma della democrazia a processi decisionali di tipo verticistico e, necessariamente, finivano per tradursi in stucchevoli rappresentazioni formali. Ma almeno erano occasione di incontro, palestre utili ad affinare le doti oratorie, palcoscenici dove mettersi in evidenza. Il partito era una caserma, ma, a starci dentro, quasi non te ne accorgevi. O, comunque, sembrava l’unico modo possibile per raggiungere gli obiettivi prefissati. Tra i quali la gestione del potere non era quello esclusivo, quello per cui sacrificare i valori ritenuti superiori. E per questo il Pci, più che il proprio partito, per tanti è stato una ragione di vita. Oggi il Pd, è vero, appare come un’associazione di vecchi notabili, spesso confusi, litigiosi ed inconcludenti, tenuti insieme soprattutto dall’antiberlusconismo. Ogni sei mesi si nomina un nuovo segretario e coloro i quali sono abituati a seguire le indicazioni del centro brancolano nel buio: come si fa a salire sul carro del vincitore se questi è sostituito in continuazione? Non c’è dubbio: bisogna cambiare. Ma il “partito nuovo” non può essere guidato da dirigenti legittimati da plebisciti ottenuti in seguito a contese elettorali municipalistiche, tantomeno da rappresentazioni mediatiche volte ad enfatizzare capacità amministrativa e potere carismatico. Il radicamento sul territorio non può ridursi ad una delega in bianco da rinnovare ogni quattro, cinque anni, soprattutto se le campagne elettorali sono vissute come un duello all’ultimo sangue, senza esclusione di colpi, basato sulla demonizzazione dell’avversario e sull’utilizzo di qualsiasi mezzo atto a garantirsi un voto in più. La burocrazia, sia quella interna al partito sia quella pubblica, non è un ostacolo da demolire, ma da snellire, per continuare a garantire il rispetto delle procedure e delle regole, alle quali devono sentirsi obbligati anche politici molto amati ed in grado di ottenere un forte consenso popolare. Secondo alcuni, servono nuovi strumenti capaci, finalmente, di tenere aperti i canali di comunicazione tra base e vertice, di consentire confronto democratico e, allo stesso tempo, l’adozione di decisioni tempestive, di favorire l’emergere di leader autorevoli e riconosciuti. Soprattutto, servono ideali e valori ai quali ancorare non la strategia dei prossimi dieci mesi, ma l’identità stessa del partito. E per fare ciò non c’è da inventare niente, perché basta guardarsi indietro e recuperare la storia della sinistra italiana. Con un po’ di nostalgia. Per gli ideali e i valori, non per la caserma.

*docente Università degli studi di Salerno