Menna, «un uomo semplice fatto per le cose difficili» - Le Cronache
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Menna, «un uomo semplice fatto per le cose difficili»

Menna, «un uomo semplice fatto per le cose difficili»

di Corradino Pellecchia Alfonso Menna (Domicella 1890 – Salerno 1998) è stato il sindaco che con le sue scelte urbanistiche, sociali ed economiche ha maggiormente cambiato il volto della nostra città, collocandosi per l’autorità e prestigio con cui tenne la carica accanto ad un’altra mitica figura, quella di Matteo Luciani. Personaggio di grande carisma, fu sindaco di Salerno, efficiente ed energico – proverbiale la sua inesauribile capacità di lavoro – amato e detestato, dal 10 luglio 1956 al 1970, raccogliendo consensi elettorali plebiscitari. Ricoprì anche numerose cariche di prestigio: fu presidente della nascente Asi e dell’Isveimer (Cassa per il Mezzogiorno) per undici anni e mezzo, rivestendo inoltre ruoli importanti nella Camera di commercio, industria e artigianato, nell’Istituto autonomo case popolari, nei Consorzi di bonifica, nell’Ente di riforma per l’assegnazione dei fondi agricoli della Piana del Sele. Iniziò la sua attività amministrativa come vice segretario ragioniere al Comune di Sarno; trasferito poi a Salerno, raggiunse il vertice della carriera con la qualifica di segretario generale di prima classe, succedendo a Filippo Scaraffia. Il suo primo incarico importante fu quella di commissario prefettizio a Battipaglia, dove s’adoperò per elevare la città a Comune affidando al professor Pasquale Carucci il compito di effettuare ricerche storiche intorno alle sue origini. Dopo sette giorni la relazione era già pronta, consegnata al prefetto De Biase, e da questi inviata al ministero. Con Regio decreto del 29 marzo 1929, Battipaglia diventava Comune autonomo, costituito da parti dei territori di Eboli e Montecorvino Rovella. Negli anni in cui restò a Battipaglia, il giovane Menna fece costruire il municipio, il primo edificio scolastico, la fognatura, l’acquedotto e le strade di bonifica. Per i brillanti risultati conseguiti e l’efficienza dimostrata, fu inviato in seguito dal prefetto Domenico Soprano per tre anni ad Eboli ad organizzare i servizi comunali. Con l’avvento del fascismo, come molti dipendenti statali, fu costretto ad iscriversi al partito “senza entusiasmo”, ricoprendo la carica di segretario dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia. Mario Iannelli, podestà dal 1931 al ’35, prima di partire per Roma, dove era stato nominato sottosegretario ai Trasporti, lo elogerà pubblicamente ed in seguito, per la sua onestà e discrezione, lo vorrà con sé nella capitale. Di lì a poco, riceverà l’incarico di responsabile per Salerno e provincia della “Sepral”, l’organizzazione per i servizi di alimentazione. Poi la guerra e il trasferimento a Napoli a dirigere i servizi per l’alimentazione, incarico che mantenne anche con l’arrivo degli alleati. Rientrato da Napoli, Menna riprenderà il suo posto di segretario generale del Comune di Salerno, mantenendo al tempo stesso l’incarico di direttore dei servizi di alimentazione. Nei giorni di “Salerno capitale”, quando il “re soldato” fu ospite a Vietri sul Mare, sopra Raito, nella villa dell’ambasciatore Guariglia, il nostro commissario si premuniva di fare arrivare ogni mattina, in maniera discreta, una cassetta di frutta e di verdura, spesso accompagnata da fiori per la regina. Un giorno si presentò un gentiluomo di corte per comunicargli che i sovrani avrebbero voluto ringraziarlo di persona. “Andai a Villa Guariglia col mio abito migliore – ricorda nelle sue memorie – La regina mi venne incontro lentamente, con un filo di sorriso. Mi sorprese che avesse le mani, oltre che grandi, ruvide come di una donna abituata ai lavori domestici. Erano mani che sembravano rivelare carattere, orgoglioso ma umile. Mi disse: “Mio marito e io sappiamo delle sue premure e vogliamo ringraziarla”. Mi regalò un paio di gemelli d’oro, con lo stemma dei Savoia, proprio gli stessi che portavano i gentiluomini di corte. Poi mi accompagnò dal re e si ritirò. Il re indossava una giacca da camera di raso verde scuro. Quando entrai si alzò di scatto dalla sedia e mi venne incontro. Mi strinse la mano, dicendo “Grassie! Grassie!”, in piemontese. Nient’altro. E ancora: “Grassie, grassie!”, sei, sette volte. Sul tavolo di lavoro vidi un foglio scritto a metà. Accanto c’era una piccola pila di fogli uguali, con lo stemma di Casa Savoia, zeppi di scrittura fitta e minuta. Gli chiesi se era vero che stava scrivendo le sue memorie. Rispose a voce bassissima, quasi farfugliando: “Sì, scrivo, scrivo da mattino a sera…”. Il tutto durò pochi minuti. Non mi disse neanche di sedermi. Poi mi congedò, ripetendo ancora: “Grassie, grassie di tutto”. Nelle caotiche giornate dell’occupazione alleata, Menna fu accusato dai suoi denigratori di profitti di regime e costretto a presentarsi davanti all’Alto Commissariato per la punizione dei delitti del fascismo, che aveva la sede a palazzo Edilizia. Ma la testimonianza dell’arcivescovo Monterisi, “Menna è il più grande galantuomo che io abbia incontrato in tutta la mia vita”, pose fine alla vicenda. Quando nel marzo del ’44 Salerno venne coperta da una pesante coltre di cenere e lapilli, proveniente dalla violentissima eruzione del Vesuvio – sarebbe stata l’ultima – Menna ebbe l’intuizione di utilizzare i materiali lapidei e le macerie dei bombardamenti per prolungare il lungomare, che allora arrivava alla Provincia, fino alla futura piazza della Concordia. Comunicò subito l’idea di creare giardini a mare all’ingegner Camillo Tizzano, direttore generale del Ministero dei Lavori pubblici, suo amico di vecchia data, che con un escamotage riuscì a trovare i fondi per l’opera. Lo troviamo ancora in prima linea nella tragica notte fra il 25 e il 26 ottobre del ’54, quando la natura scatenò la sua furia selvaggia su Salerno e la Costiera amalfitana, Cava de’ Tirreni, Vietri e Nocera Inferiore, facendo oltre trecento morti, diecimila senza tetto e danni per cinquanta miliardi. A quei tempi, Salerno era priva di una guida amministrativa, in quanto il Consiglio comunale era stato sciolto nel 1953 e il commissario prefettizio Lorenzo Salazar risiedeva a Napoli (raggiungerà la città dopo tre giorni). Ancora una volta Menna si trovò ad essere protagonista, suo malgrado. I vigili del fuoco lo andarono a prendere con un autocarro nella sua abitazione di palazzo Medici e lo accompagnarono al Municipio, dove si mise alacremente all’opera per organizzare i primi soccorsi. Il prefetto Lorenzo Mondio, che si era insediato solo ventiquattr’ore prima, non conoscendo la città, si affiderà completamente a lui. Per l’opera svolta in quella drammatica circostanza, nel 1968, verrà insignito della medaglia d’argento al merito civile. Nel 1956, su espresso invito del vecchio arcivescovo Demetrio Moscati, Menna si candidò alle elezioni nelle liste della Democrazia Cristiana, che per la prima volta conquistò la maggioranza relativa. Pur non avendo potuto partecipare a gran parte della campagna elettorale a causa di un grave infortunio che lo trattenne in ospedale a Roma, ottenne 7.046 voti contro i 4.713 del leader Carmine De Martino e diventò sindaco a capo di una giunta monocolore Dc, sorretta dai voti socialisti e l’astensione comunista. Fu il primo esperimento di centro sinistra in Italia. Il neo sindaco prese in mano le redini di una città sconvolta dalla guerra e dal nubifragio, con numerosi, urgenti e gravi problemi da risolvere: la ricostruzione, la disoccupazione, l’edilizia scolastica, la ristrutturazione degli uffici e dei servizi pubblici. L’attivissimo primo cittadino, sia pur con gli scarsi strumenti amministrativi a disposizione, si prodigherà per migliorare la “qualità della vita” dei suoi concittadini, cercando di avviare a soluzione il problema più impellente e drammatico, quello di dare una casa ai senzatetto, che temporaneamente erano stati trasferiti in strutture di fortuna a Mariconda. Alla cura dell’Orfanatrofio “Umberto I” Menna profonderà gran parte delle sue energie; era la sua seconda famiglia. Ogni giorno, domeniche comprese, era presente nell’Istituto, per rendersi conto di persona delle necessità dei “suoi ragazzi”. Per “i figli di Salerno”, così li chiamava, e per raccogliere i mezzi necessari per il loro sostentamento, promosse manifestazioni di carattere culturale e artistico e avviò richieste di aiuti a ditte e a persone abbienti della città. “Soltanto l’amore paterno ed il lavoro insonne del nostro presidente – scriverà il dottor Umberto Scarpetta – hanno potuto realizzare un’opera che rimarrà nella storia della pubblica beneficenza, quale esempio unico e non ripetibile di amore per i diseredati, verso i quali la sorte è stata matrigna”. Don Alfonso amministrerà questa istituzione dal 1950 fino al giugno del 1981, trasformando l’antico e famigerato “Serraglio” borbonico in un istituto moderno, dal quale sono usciti valenti musicisti, apprezzati tipografi, grafici e ceramisti. Quando nel 1969 gli verrà conferita la medaglia d’oro al merito civile, Menna sceglierà per la cerimonia proprio la sede dell’Orfanatrofio, per dividere insieme ai suoi ragazzi quel momento così solenne. Nelle elezioni del 1960 otterrà sedicimila consensi e la Dc conquisterà la maggioranza assoluta con il 47 per cento e 21 consiglieri su 40. Inizia la vera e propria era Menna; prende corpo il progetto della “grande Salerno”, della “città-cerniera fra Nord e Sud, della città-cantiere dell’edilizia selvaggia, delle ciminiere e dei capannoni. Si ripropone anche l’annosa e tormentata vicenda del porto. Divampano le polemiche fra chi voleva delocalizzarlo ad oriente e chi invece voleva puntare sulla ristrutturazione dello scalo già esistente, come De Martino, che ne fece il suo cavallo di battaglia e il ministro dei lavori pubblici Sullo. Il presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, Rinaldi, sebbene anche lui fosse per l’orientamento occidentalista, prima di prendere una decisione definitiva, affidò l’incarico al professor Ferrero, rettore dell’Università di Padova, il maggior esperto in materia, il quale consigliò di potenziare la struttura esistente, meno costosa e rischiosa della tesi orientalista. La costruzione del megaporto, con la soppressione dei bagni e dell’antico rione “Porto”, e la nascita dell’Università nella valle dell’Irno segneranno due amare sconfitte per il coriaceo sindaco che si era battuto affinché l’Ateneo rimanesse dentro le mura cittadine. Menna ebbe sempre grande rispetto e devozione per la cultura; fece ristampare l’opera omnia di Nicola Abbagnano, organizzò una grande mostra antologica nel Salone dei Marmi a Clemente Tafuri, che lo immortalò in una tela, fu amico di Pasquale e Mario Avallone, di Mario Carotenuto, che nell’’84 volle l’ex sindaco nel suo presepe. Ricordo che si presentò puntualissimo – ad accoglierlo nella sala san Lazzaro c’era l’allora parroco della cattedrale don Biagio Pellecchia – rimanendo in piedi – aveva all’epoca 94 anni – per tutto il tempo della posa. L’amministrazione comunale negli anni dal 1956 al 1970 riservò alla cultura grande attenzione, promuovendo convegni e congressi legati ad ambiti economici, politici e culturali di grande rilevanza, non mancando mai di rendere i dovuti onori alle grandi personalità del mondo della cultura. Fu proprio Menna, amico di vecchia data del padre Peppino, ragioniere capo alla Provincia, a conferire la cittadinanza onoraria ad Alfonso Gatto, nel corso di una solenne cerimonia nel Salone dei Marmi. Sindaco e poeta saranno protagonisti di un curioso episodio. Gatto fu portato in questura da uno zelante poliziotto, perché s’era messo a suonare il clacson all’impazzata, in quanto la processione del Corpus Domini bloccava la principale arteria cittadina e gli impediva di raggiungere la stazione, dove avrebbe dovuto prendere il treno per Milano. Venuto a conoscenza dell’episodio Menna si fiondò in questura per “liberare” il poeta. Menna fu anche un prolifico scrittore di libri di memorie: “Una istituzione allo specchio”, Boccia Editore, 1982; “Buon senso”, De Luca Editore, 1988; “La casa e la città”, De Luca Editore, 1989; “Palazzo di città. Per il buon governo 1956-1970”, De Luca Editore, 1986; “Salerno, ieri oggi domani”, Arti Grafiche Boccia,1996; “Come li ricordo”, due volumi, Edizioni Servizi Giornalistici Salernitani, 1996. Il 25 ottobre 1970, a ottant’anni, pur essendo stato il più votato della lista democristiana, per forti contrasti sorti in seno al partito non venne rieletto a sindaco. Dopo quattordici anni, dieci mesi e nove giorni di “regno”, il “profeta della grande Salerno”, lasciò la sua carica “con la piena coscienza di aver fatto tutto intero il mio dovere e di aver dedicato alla nostra Salerno ogni palpito del mio animo”. Menna prese decisioni fondamentali per il futuro sviluppo della città: come risposta alla drammatica situazione degli alloggi costruì interi quartieri, favorì gli insediamenti nella zona industria per attirare investimenti e lavoro, realizzò il lungomare, valorizzò l’hinterland per un maggiore incremento turistico potenziando la viabilità, i trasporti e le attrezzature, avviò la definitiva sistemazione dei corsi d’acqua pericolosi, il rimboschimento delle colline che sovrastano la città per evitare il pericolo di nuove frane e alluvioni, la bonifica dei costoni rocciosi, la costruzione del nuovo metanodotto e della nuova centrale del latte. Ma non sono mancati i denigratori, coloro che lo accusavano di aver sacrificato il verde alla cementificazione indiscriminata e di aver puntato sull’industrializzazione invece di privilegiare la vocazione turistica della città. Quando lo intervistai nel dicembre del 1996, aveva allora 106 anni, non si dichiarò per niente pentito e difese con lucidità le sue scelte, sostenendo che erano state in linea con gli indirizzi della politica nazionale di quegli anni; anche le polemiche sul porto non trovavano giustificazione con la realtà attuale. Ricordò il rimboschimento dopo l’alluvione delle pendici del castello e delle colline che sovrastano la città – vennero piantate trentamila piantine – e rivendicò l’acquisto di 140mila metri quadri di verde, a ridosso della città, da trasformare in parco pubblico. Concluse la chiacchierata sostenendo che lo sviluppo futuro della città era sulle colline. In un incontro-intervista dal titolo “Cent’anni a Salerno” di Gaetano Giordano, pubblicata da “Il Mattino”, Menna ricordando il suo passato di sindaco osserva: “Da quando io non sono più sindaco sono passati 18 anni e dopo di me ci sono stati 21 sindaci. Voglio dire che io di errori certamente ne ho commessi tanti, anche perché solo chi non opera non sbaglia e non c’è stato giorno che io me ne sia stato con le mani in mano”. Più di ogni altra difesa, vale il giudizio di Pietro Amendola, suo avversario politico: “Io sono fortemente convinto che egli sia stato soltanto un grande amministratore… il grande amore, la grande passione di Alfonso Menna è stata, senza alcun dubbio, la città di Salerno, che egli ha voluto in continua ascesa sia per quanto riguarda infrastrutture pubbliche e insediamenti abitativi sia per quanto riguarda la creazione di nuove fonti di lavoro, soprattutto nel settore industriale… E dovere di verità esige ancora riconoscere che se, purtroppo, è indubitato che la speculazione edilizia, in particolare quella dei costruttori, si alimentò grassamente in quella tumultuosa espansione della città, essa però non arrivò mai a scalfire minimamente l’onestà pubblica e privata del sindaco Menna”.