Maria Giuseppina De Luca, docente ordinaria di Estetica presso l’Università degli Studi di Salerno, suggerisce degli strumenti utili per indagare con occhi diversi sui grandi temi del nostro tempo. Già negli anni 70 vennero individuate tre disposizioni verso l’immagine: l’iconoclastia, l’iconofilia e una terza attitudine associata con la nozione di simulacro. Quest’ultima ammette un certo apprezzamento dell’immagine pur riconoscendole un valore molto relativo. In che modo è cambiata la percezione dell’immagine nella stagione post-Covid-19? “È molto difficile. Proverei ad indicare due grandi orientamenti molto lati. C’è una maniera di considerare l’immagine, che è un po’ un precipitato del moderno. In tal caso, l’immagine è quella che Heidegger definisce l’“immagine del mondo”, che corrisponde all’azione fotografica del fermo immagine. Come una sorta di screenshot in grado di lasciare le cose in una sorta di posa definitiva decisa dal soggetto che afferma “è così”. Esiste d’altro canto, un’altra linea dell’immagine che viene interpretata eloquentemente attraverso uno scatto del fotografo Mimmo Jodice. Nella raccolta “Ciclo di attesa” esposta al Museo Madre di Napoli, ricordo una foto in bianco e nero raffigurante una sdraio vuota che guarda l’orizzonte. Nulla è stato definito, mare e cielo si confondono in nuances di grigio. In questo caso gli spettatori si ritrovano di fronte ad un’immagine irrisolvibile ma che coinvolge in un processo creativo, stimolato dalla produttività che trattiene in sé. Il fenomeno Covid-19 ha segnato una frattura definitiva senza ritorno. L’umanità, nonostante fosse del tutto impreparata a tali cambiamenti, non si è limitata a fruire delle immagini ma ha superato il trauma dell’imposizione abitando l’immagine. Ancora una volta, la storia ha dimostrato che le crisi, affrontate con il giusto atteggiamento, stimolano ad uno sforzo d’invenzione. Allora essere nell’immagine significa farsi capaci di abitare mondi diversi.” Quale crede che sia il ruolo dell’individuo nella “community artificiale” dei social media? Lei crede che l’impianto autobiografico virtuale possa supplire al racconto di sé spontaneo e sensazionale? “L’estetica non va intesa come sapere del bello ma come scienza della conoscenza sensibile. Anche il patrimonio del social media appartiene alla sfera del sentire il quale, volendo adoperare un’espressione del filosofo Walter Benjamin è “innervata dalle tecnologie”. Oggi molto spesso si sente parlare del sentire tecnicizzato. L’azzardo della spontaneità rischia di scivolare in una dimensione emozionale affidata esclusivamente all’immediatezza bruta dei riflessi. Di conseguenza viene a mancare l’elaborazione del sentire e si finisce per presuppore un’anarchia elementare. Per far fronte alle oscillazioni dell’”estetico metropolitano”, l’abito percettivo deve orientarsi verso una profonda meditazione interiore, altrimenti il consueto stato di eccitazione, provocato dalla velocità della vita precipita su sé stesso.” Può il labirinto del “politically correct” stabilire un compromesso adeguato alla convivenza delle diversità? “Una prospettiva di rimedio potrebbe essere quella di liberarsi delle recinzioni sollevate dal paradigma delle diversità. “L’ospitalità. Come scoprire la bellezza di stare sulla soglia.”, un saggio filosofico di Jacques Derrida dispone di una soluzione a favore dell’ottimismo delle differenze. L’ospitalità come godimento dell’altro e come dono di comprensione suggerisce un nuovo movimento contro l’assimilazione della persona. Accogliere l’altro nella sua differenza e opporsi alla pretesa di renderlo uguale a noi, ci consente di apprezzare l’unicità intrinseca di ogni essere umano. L’ospitalità autentica è densa di significati e appiana il dilemma del politicamente corretto riconciliando la massa informe alla sua naturale libertà psicologica. Inoltre, l’ospitalità, non rappresenta una forma etica tra le altre, ma è la manifestazione pura dell’etica stessa in forte contrasto con l’espressione della tolleranza. Quest’ultima si dimostra ancora oggi un grande portato della cultura occidentale del Novecento, spesso reificata e travestita da ipocrita sopportazione di chi viene percepito come insufficiente. Concludo proponendo una nuova maniera di ragionare la diversità iniziando a pensare la differenza dell’altro come valore.” Andrea Orza
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