«Marcello Torre non fu ucciso da Cutolo», parla la moglie - Le Cronache
Cronaca

«Marcello Torre non fu ucciso da Cutolo», parla la moglie

«Marcello Torre non fu ucciso da Cutolo», parla la moglie

“Di quella morte Raffaele non ha colpa. Fu la politica che lo ammazzò”. L’ultimo dei misteri di Raffaele Cutolo è legato all’omicidio di Marcello Torre, sindaco di Pagani ucciso 35 anni fa. A sostenere che non fu il capo della Nco a farlo ammazzare, come ha stabilito una sentenza definitiva, è la moglie Immacolata Iacone in un’intervista alla tv Svizzera Italiana. La donna rilancia anche le accuse sulla trattativa Stato-camorra per la liberazione dell’assessore regionale Cirillo. E scopre qualche altra carta nell’interminabile partita a poker con le istituzioni: “Mio marito sa molto sul caso Moro. In quel periodo poteva molte cose, ma gli ordinarono di non intervenire”. Lo scenario non è nuovo. Don Raffaele era uomo potente e temuto.’ Un boss da blandire e consultare quando lo Stato finiva nei meandri del ricatto, messo spalle al muro dall’attacco del terrorismo. Una fiche su cui puntare tutto in un gioco dove però si finisce col barare. E per la moglie del boss, custode di tante rivelazioni, il baro fu proprio chi doveva tutelare la legge. “Fu il momento in cui lo Stato cercò l’intervento dell’anti-Stato, questo mi ha sempre detto mio marito. Hanno capito che Cutolo avrebbe liberato il signor Cirillo. Però all’epoca non fu mai sentito in prima persona”. Uomini dei servizi in processione nel carcere di Ascoli Piceno. Negoziati in cui cutoliani incontravano uomini delle istituzioni. E promesse, tante promesse. Lo Stato si piegò e ottenne il rilascio dell’assessore democristiano. Ma subito dopo iniziò il precipizio per il professore di Ottaviano. Fu trasferito al carcere di massima sicurezza dell’Asinara. E una catena di omicidi chiuse il cerchio di quella torbida storia. Saltò in aria Vincenzo Casillo, l’uomo che aveva un tesserino dei servizi in tasca e il ruolo di braccio destro del boss. Fu ammazzato il capo della Mobile di Napoli, Antonio Ammaturo, il cui assassinio fu attribuito alle Brigate Rosse. Ed il poliziotto di eversione non si era mai occupato. Mandarono all’altro mondo anche l’avvocato Enrico Madonna, che di Cutolo era il legale. Una scia di sangue che si è fermata alla cella di Don Raffaele. Al destino da pluriergastolano però non si è mai sottratto, dopo che oltre 20 anni fa sembrò sul punto di saltare il fosso. “Sta scontando la sua pena con dignità. Se avesse voluto uscire – dichiara la moglie – avrebbe fatto il juke-box”. Iacone racconta del regime a cui è sottoposto il boss. “Il suo 41 bis è isolamento totale, non può vedere nessuno né parlare con le guardie. Ci sono limiti anche per la biancheria. Non più ricevere lettere da nessuno, all’infuori di quelli che vanno a colloquio. Salta anche l’ora d’aria. Se per respirare un’ora deve farsi perquisire e sottoporsi a controlli umilianti, preferisce stare in cella”. Dei suoi 74 anni, 51 li ha passati in galera. Tranne l’anno di latitanza tra il ’77 e il ’78. Sono 36 gli anni in isolamento totale per associazione a delinquere e per un numero imprecisato di omicidi. Anche quello di Marcello Torre. “Di quella morte Raffaele non ha colpa – sostiene la moglie-. Volevo farmi capire dalla famiglia. Mio marito è il capro espiatorio di tutto”.  “Per Moro non si trattò col boss”. Anche Ciro Cirillo ha rilasciato un’intervista alla Tv Svizzera Italiana. L’ex politico ribadisce che per il suo rapimento non ci fu trattativa tra Stato e camorra: “Lo escludo, assolutamente”. A 95 anni d’età e a 35 dai fatti, l’ex politico democristiano nega quanto affermava l’istruttoria del giudice Carlo Alemi. “Ci fu un’istruttoria che aveva un solo obiettivo, incastrare Gava, allora ministro degli interni”. E poco importa se la Cassazione assolse il capo della Nco dall’accusa di estorsione. Una sentenza che conferma l’esistenza di quella trattativa. Perché se non ci fu minaccia camorrista, allora gli uomini dei servizi accorsero a trattare da Raffaele Cutolo. Contatti accertati da tutti i passaggi giudiziari. Il boss fu avvicinato nella cella del carcere di Ascoli Piceno per favorire la liberazione dell’assessore. Cirillo però non ci crede. Ma qualcosa fa trapelare, con una frase sibillina: “Sono state scritte pagine e pagine di giornali, decine di libri e migliaia di atti giudiziari sulla mia vicenda. La verità è che a qualcuno giovò il mio sequestro”. A chi giovò non lo dice. Gli rammentano che per la liberazione fu pagato un riscatto di un miliardo e 450 milioni di vecchie lire. “I miei figli fecero cambiali per 300 milioni”, ricorda. Il dialogo non si sofferma sui giri vorticosi per mettere insieme tutta la cifra. Una colletta che vide in campo una cordata di imprenditori vicini alla Dc. Tante cose Cirillo preferisce tenerle per sé. Una però la tira fuori. Ma sempre per difendere lo scudo crociato. Non sarebbe vero che il partito avrebbe spinto per un dialogo coi sui rapitori mentre per Moro si sarebbe ostinato nella linea della fermezza. “Mi dissero – dichiara Cirillo – che la trattativa era stata avviata, che era giunta anche a buon punto, ma non fecero in tempo perché lo stesso giorno in cui fu comunicato l’accordo, Aldo Moro fu ucciso. Me lo disse uno dei miei carcerieri, Pasquale Aprea”.