Le due citta’ vivono in simbiosi anche se in una esplode la vita e nell’altra la morte non e’ mai andata via. I nuovi palazzi accanto alle macerie di quelli venuti giu’ il 6 aprile 2009, le attivita’ commerciali spuntate come funghi e le saracinesche chiuse, il rumore incessante dei martelli pneumatici e il silenzio dei vicoli del centro, il balletto delle gru e l’immobilita’ dei ricordi rimasti sepolti sotto le pietre. L’Aquila 10 anni dopo il terremoto e’ molto piu’ del cantiere piu’ grande d’Italia dove la polvere non si posa mai: e’ il simbolo stesso di un Paese che nelle tragedie da’ il meglio di se’ e che poi si perde nei mille rivoli della burocrazia, che convive con i disastri ma che non e’ mai stato capace di mettere la prevenzione al centro della sua politica. L’Aquila e’ piena di altarini. Ce ne sono ovunque, sparsi per la citta’: accanto agli alberi, vicino ad un cumulo di pietre, sulle recinzioni che delimitano le zone ancora off limits. Come quello dedicato a Vasileios Koyfolias, un ragazzone greco che mori’ in via Campo di Fossa, a due passi dalla villa comunale: la bandiera bianco e azzurra e’ appoggiata ad un albero assieme alla sua foto e ad un lumino, davanti al palazzo che sta nascendo al posto di quello dove e’ morto. O come quello in via XX settembre, dove c’era la casa dello Studente. C’e’ uno striscione con i nomi dei ragazzi e una maglietta appesa alla recinzione metallica: “10 anni sempre nel nostro cuore”. Al posto dell’edificio c’e’ un grande buco con al centro due pilastri e un’architrave; sembra la porta d’Europa di Lampedusa, con l’unica differenza che quella e’ dedicata ai morti in mare e questa a quelli sepolti vivi dopo le scosse. Ma L’Aquila e’ anche la forza della vita che ti colpisce imperiosa. La periferia e’ un brulicare di umanita’ che si sposta, produce, lavora, gioca, ha fiducia, combatte ogni giorno. Lo skyline della citta’ e’ cambiato completamente, centri commerciali e nuovi palazzi hanno modificato per sempre il volto di queste zone. Certo, non e’ tutto oro quel che luccica: perche’ la ricostruzione, piu’ quella pubblica che quella privata, e’ assai indietro e perche’ forse con tutti i miliardi arrivati – e sono tanti – si poteva fare di piu’ e meglio. Basta camminare in centro storico per accorgersene. Dove accanto ai palazzi ristrutturati e alle chiese riaperte e’ pieno di vicoli fermi a dieci anni fa, con i materassi sopra le pietre crollate.
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