La Tosca della meraviglia tra campane e campanacci - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

La Tosca della meraviglia tra campane e campanacci

La Tosca della meraviglia tra campane e campanacci

Presentata ieri mattina l’opera che chiuderà la stagione lirica del teatro Verdi. Domani l’attesa prima firmata dal binomio Daniel Oren e Renzo Giacchieri

 Di OLGA CHIEFFI

Conferenza champagne, ieri mattina, nel foyeur del teatro Verdi di Salerno per il ritorno di Fiorenza Cedolins che sarà Tosca. Diversi gli imput offerti dal regista Renzo Giacchieri, dal direttore Daniel Oren e dallo stesso sindaco, Vincenzo Napoli, il quale insieme ad Antonio Marzullo e allo stesso Peppe Iannicelli, che conosce a memoria l’opera, ha intrattenuto il parterre fino allo scampanio del mezzogiorno. Daniel Oren, che sarà alla testa dell’ Orchestra Filarmonica Salernitana, del coro preparato da Tiziana Carlini e delle voci bianche di Silvana Noschese, si è presentato in conferenza con la prima partitura dell’amatissima opera pucciniana, acquistata da ragazzo, in brossura, il formato piccolo economico, poiché al tempo non c’erano soldi. Ma è quella più straziata, macerata, infinite volte ri-nata, approfondita. “Tosca è nella mirabile evocazione di tutta la parte che concerne la città, in cui la vicenda si svolge e la partitura ne confeziona quadri eloquentissimi”. Ricordiamo l’evocazione delle campane di Roma “quel tono squarciato, indistinto, confuso, inafferrabile del campanone di San Pietro risponde ad un mi naturale”. In origine, dalle indicazioni di lavoro per il libretto, la didascalia all’inizio dell’atto era più lunga e dettagliata dell’attuale – il cui unico riferimento va alle “campanelle” del gregge guidato dal Pastorello – e comprendeva le campane di diverse chiese di Roma: “Tutto, intorno a S. Pietro e a Castel Sant’Angelo, è immerso in una nebbia plumbea.
Lontanissimo, nell’estremo fondo, da San Pietro Montorio viene fioco fioco il suono di campana che chiama a mattutino; subito, dopo breve intervallo, vi risponde la piccola campana del convento di Sant’Onofrio, nel medio fondo, a destra; poi, più accelerate, echeggiano quelle lontanissime, a sinistra, di San Giovanni in Laterano, di San Pietro in Vincoli, di Santa Maria Maggiore; poi, sola ancor, e più accelerata, la campana della Chiesa de’ Miracoli, vicinissima, a sinistra, batte mattutino. Riecheggia dal Casermone di Aracoeli la diana delle trombe; risponde da Castel Sant’Angelo uno squillo isolato”. Così scriveva Giacomo Puccini ai librettisti e Daniel Oren ha promesso di farcele sentire bene tutte, “Poiché in questo teatro, a differenza di altri c’è anche la campana del Mi grave”. Poi il Maestro ha continuato nel suo lungo intervento affermando che protagonista in quest’opera è la Polizia Segreta, il suo sadismo, attualissimo ai tempi d’oggi, un coagulo impressionante di sangue e di nero, degno di un ritratto della città quirita, tutta erotismo e superstizione, oscurantismo poliziesco e volgarità bacchettona, sottoproletariato e aristocrazia perversa. Renzo Giacchieri si è affidato a Giacomo Puccini drammaturgo eccellente e ha promesso di farci vedere una Tosca che sia Tosca, in cui l’attenzione e la meraviglia del pubblico non cederà un solo istante. Stellare il cast scelto: la crudeltà e l’ansia di Scarpia, interpretato da due eccellenti baritoni, Ambrogio Maestri per la prima e Alberto Mastromarino per le due repliche, mostro corrotto ma sincero, uomo di mondo e fedele servitore dell’autorità; la tenerezza di Tosca, che avrà la voce e in particolare le qualità attoriali di Fiorenza Cedolins, l’unica donna ammessa nell’opera, che ne occupa con prepotenza ogni spazio, in ogni momento, sempre da padrona assoluta, amante focosa ed imperiosa che non esita a smaniare in chiesa esibendosi in una violenta scena di gelosia, la stessa creatura che, come una pia fanciulla, s’inginocchia devotamente dinanzi alla Vergine e le offre dei fiori, è la stessa artista che si umilia come una donnicciola qualsiasi quando si prosterna disperata ai piedi dell’aguzzino, implorando pietà per il suo uomo, è la stessa creatura che, brandisce un coltellaccio da cucina e trucida selvaggiamente il boia che la vuole sua in cambio della salvezza dell’amante, è Tosca il deus ex machina dell’azione e lascia il partner sempre nell’ombra (Cavaradossi è seviziato ma è lei che soffre e recita la sua sofferenza, intonando quella pagina in sé molto efficace e musicalmente ben tornita, ma estranea all’economia del dramma che è “Vissi d’arte”), il pittore Cavaradossi, al quale darà vita Gustavo Porta attaccato alla vita e al piacere con ingenuità poetica, non è che il signor tenore, al quale non gli è permesso che cantare due romanze “Recondita Armonia” e “Lucean le stelle”; a completare il cast il basso Carlo Striuli, sarà Cesare Angelotti, e la abituale triade Nardinocchi, Pittari e Boisseau, ricoprirà i ruoli del sagrestano, Spoletta e Sciarrone. La cornice dei luoghi, mossa con estrema abilità fra una chiesa fastosa, una sala di palazzo con annessa stanza dei tormenti, e il carcere per i condannati a morte: è tutta qui la Tosca, schizzante una Roma tra fede e potere e il conflitto fra la voluttà e la carne martoriata, fra la sete vitale e l’oppressione, il tutto elevatesi a monumento sepolcrale, sotto un cielo stellato schizzato dalle luci di Jean Baptiste “Tittì” Warluzel. La bellezza e gli amori celebreranno un forzato trionfo davanti al plotone di esecuzione.