La "Malacrescita" secondo Mimmo Borrelli - Le Cronache
Spettacolo e Cultura teatro

La “Malacrescita” secondo Mimmo Borrelli

La “Malacrescita” secondo Mimmo Borrelli

In scena giovedì 9 alla Sala Pasolini la pièce ospite della sezione di Teatro Civile e contemporaneo del cartellone di prosa del Teatro Verdi di Salerno, che presenta una novella Medea della Terra dei Fuochi, Maria Sibilla Ascione

Di OLGA CHIEFFI

La sezione di Teatro Civile e contemporaneo del cartellone di prosa del Massimo cittadino, prosegue, questa sera, alle ore 21, nello spazio della Sala Pasolini, con lo spettacolo Malacrescita, tratto dalla tragedia La Madre: ’i figlie so’ piezze ’i sfaccimma”, di e con Mimmo Borrelli e le musiche in scena di Antonio della Ragione. Una storia dolorosa di camorra, ma colma di tenerezza è quella di Maria Sibilla Ascione, ignara e innocente bambina, destinata a una condizione di metà vergine innocente, metà maga e strega, poiché segnata nelle mani, dove le linee di forza della vita, della morte e della prosperità, si uniscono a formare una M che la legittima, secondo le credenze pagano-contadine, ad avere un rapporto soprannaturale spirituale con i morti e dunque a praticare riti di guarigione da malocchio e fatture. Maria, figlia di un camorrista che coltiva pomodori vicino alle discariche nella terra dei fuochi e ne nutre la figlia intossicandola, si innamora di un delinquente detto “Santokanne” e per lui distrugge la propria famiglia uccidendo il fratello e facendo morire di crepacuore il padre. Ma il suo amato marito si sente vittima di un inganno e di una gravidanza non voluta e così lei, come una moderna Medea, per vendicarsi dei tradimenti e delle violenze, cresce i loro figli, negandogli il latte, con il vino, condannandoli alla demenza. Una moderna Medea, una giovane madre, una figlia sciagurata. Così potrebbe essere descritta Maria Sibilla Ascione, la Madre, il cui amore genitoriale non è mai uscito dal suo ventre, dando invece alla luce due figli, due gemelli, protagonisti della scena. La Madre viene presentata da i suoi due figli, ‘i piezze ‘e core di eduardiana memoria, con Francesco Schiavone, ‘o Santokanne, che la prende e la “consuma” e il loro rapporto darà vita a Pascale e Totore, figli di una Medea ripudiata dalla famiglia e dal suo Giasone. Nella scena iniziale il figlio Pascale Mammiluccio, “aggirandosi demente su di una tomba di bottiglie di vino e pomodori intonando un canto funebre alla madre defunta…”, cammina con le dita dei piedi allargate. Le dita dicono il loro tormento, partecipano al dolore del povero cristo, rimbambito da una vita di violenza e ignoranza e dal vino che la madre ha dato da bere a lui e al fratello gemello al posto del latte.Ma la vera protagonista è la lingua flegrea, bollente e fiammeggiante, che Borrelli doma e plasma. Qui non conta tanto intendere parola per parola il parlato  quanto sentire e farsi trasportare dalla poesia come da un fiume di lava, la lingua della sua terra, vulcanica, che racconta una tragedia dei nostri giorni tra litanie, ninne nanne, urla, rantoli, versi animaleschi, con un ininterrotto saliscendi di toni e intonazioni che rivelano l’innegabile talento recitativo di Borrelli. Il punto più alto è l’invocazione alla Madre:“Mamma Vergine Madre, figlia del suo figlio” dove i versi danteschi che sono il culmine dell’avvicinamento al mistero della vita, in Malacrescita sono un ulteriore sfregio a un lungo rosario di insulti:“Mamma assaje puttana, cu ’a statua r’ ’a Maronna se fa na fessa ’mmane.’Nn’ae saputa fa’ ’a mamma, sta malacrescita Mari’… è figlia della tua malarièscita!”. Una perfomance contemporanea, che si può leggere in almeno tre chiavi diverse. La prima, quella euripidiana, di una Medea nuova, forse ancora più tragica, che sceglie la via del parto ma solo per avvelenare i propri figli ma senza ucciderli, facendoli rimanere in vita come testimoni del dolore causato da Giasone. Come ricordi viventi, un memento della vita di Maria Sibilla Ascione, per lei un continuo rinvangare di ciò che ha compiuto. Vi è poi la lingua flegrea, che andrebbe quasi elencata tra i protagonisti, una lingua leggermente diversa dal napoletano, la cui cadenza ritmica arriva da molto lontano, dai «marrani, i porci, gli ebrei scacciati dalla Spagna che si rifugiarono a Messina, risalirono la penisola, fino ad arrivare in Campania […] testimonianza poi di questa cadenza è questa cantilena incredibile che io esprimo al cinquanta per cento in scena altrimenti sarebbe davvero incomprensibile» queste le parole di Mimmo Borrelli che, per poter aiutare la comprensione, ha dato disponibilità del testo per avere qualche appiglio linguistico durante la messa in scena. Infine, la terra dei fuochi, questo male reale che attanaglia le città della zona, che questo spettacolo mostra, con estrema violenza emozionale.