La Carmen e i "tardoni" - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

La Carmen e i “tardoni”

La Carmen e i “tardoni”

Daniel Oren ha lanciato l’opera dei giovani ma i protagonisti sono tutti sugli “anta”. Veronica Simeoni è una gitana ironica e contenuta, il demone della passione si è impossessato invece di Daniel Oren, che ha stritolato l’orchestra e le sue navigate prime parti. Renzo Giacchieri trasforma il teatro Verdi in una Plaza de Toros con tanto di fazzoletti sventolati dal pubblico

Di OLGA CHIEFFI

 

Il garofano rosso, fiore nato dalle lacrime della Madonna e simbolo di dignità, insieme al ventaglio, emblema dell’ombra dell’anima e della Spagna, hanno incorniciato l’allestimento della Carmen, opera che ha inaugurato, venerdì sera, la nuova stagione lirica del teatro Verdi di Salerno. Teatro affollato in ogni ordine di palco, con diversi volti nuovi per questa attesa prima, che lancia il new deal della direzione artistica del massimo cittadino. Daniel Oren aveva annunciato un cast privo di nomi altisonanti, ma giovane, frutto di un’accurata opera di scouting in tutto il mondo, ma ci siamo trovati solo con cantanti dignitosamente tardoni. Poche spezie e profumi, molta ironia e sfrontata leggerezza, sono stati gli ingredienti, che hanno condotto più volte il pubblico verso l’applauso, dell’interpretazione della protagonista, Veronica Simeoni. Il mezzosoprano ha tecnica dell’emissione delicata e omogenea lungo tutta la gamma, dell’eguaglianza timbrica insieme con la – deliberata – varietà dei colori, che la rendono elegante nella lusinga erotica, grazie alle mille piccole sfumature che riesce a donarle, ma da cui ha voluto allontanare quel quid di diabolico, nell’intensità di espressione, nello sguardo, muovendosi con mollezza imperiosa, accompagnando il proprio cantare barcamenandosi lievemente, senza quella disperazione di chi è preda del demone Amore. Demone di una passione irrefrenabile, in contraltare, che ha attanagliato, invece, come non mai, un Daniel Oren scatenatissimo sul podio, il quale ha stritolato l’orchestra in un vortice, una grande inestinguibile volontà di fuga, che ha posto non poco in difficoltà le prime parti dell’orchestra, che pur hanno da confrontarsi con soli delicatissimi del calibro dell’Entr’acte del III, in cui, un non so che di egoistico, non ha lasciato distendere il bel suono del flauto di Antonio Senatore. Luci e ombre su di un’orchestra, che ha dovuto interpretare attraverso salti e saltelli, improvvisi accosciamenti, e gesti inusitati del maestro, i voleri di Daniel Oren. Percussioni e strumentini protagonisti, grazie alla loro esperienza, con corno inglese e trombe da “fanfara” militare, bilanciati dalla accorta condotta degli archi, affidati alla concentrazione imperturbabile del Konzertmeister Daniela Cammarano. In otto sole prove, la regia di Renzo Giacchieri non ha potuto certo far miracoli in un’atmosfera già segnata dalle mura bianche, adattabili con piccole modificazioni alle esigenze dei quattro atti, eccezion fatto per il terzo, un notturno con luna, con praticamente nulla in scena per dar senso dell’ambiente sassoso, valido sino alla presenza in palcoscenico delle masse corali e con scena rimasta, poi, vuota su di un pavimento grigio e lindo. Apprezzabile l’idea della luce che  cerca  Carmen durante la rivelazione delle carte,  luce di morte che sceglie e colpisce con la sua mira il suo corpo, brucia i contorni, fa nascere riflessi, balzare lampeggiamenti, investe il suo volto stravolto, si trasforma in specchio di verità, che le impone di ignorarsi, distruggersi ed elevarsi a puro simbolo di libertà. Il cast ha avuto le sue stelle tra le voci femminili, su tutte, come già annunciato, il soprano Alida Berti, che ha ben schizzato la figura di Micaela, col suono innocente della sua voce, che ha timbro pallido e tenero come l’argento, la quale sa gorgheggiare e smorzare i suoni nel silenzio con una gemebonda malinconia che pare un’eco della meraviglia, in cui c’è tutta la mansuetudine, il pudore e l’inquietitudine del casto personaggio. Pollice verso per le voci maschili, con Don Josè, un trentasettenne Francesco Pio Galasso, cui nel registro medio acuto manca il sole e il quarantasettenne Giulio Boschetti, un Escamillo mediocre vocalmente e musicalmente. Tutti commendevoli, i ruoli minori, a cominciare da Raffaele Raffio, voce giovane e promettente applaudito nella parte di Moralès, seguita da Mercédès, Antonella Carpenito e Frasquita, Stefanna Kybalova, che hanno “giocato” nel duetto delle carte in punta di stiletto, unitamente, ai due contrabbandieri Fabio Previati e Francesco Pittari, a loro perfetto agio nel ruolo. Coro diretto da Tiziana Carlini bello, giovane e ben preparato, così come quello dei bambini di Silvana Noschese, dei quali apprezziamo l’impegno profuso per una parte non semplice. Finale studiato per il pubblico salernitano fornito di fazzoletto per salutare la spettacolare quadriglia di Escamillo che ha invaso la platea, unitamente alle tre coppie di ballerini coreografati da Edmondo Tucci, plaudendo a specchio Escamillo e Don Josè, toreri che hanno spento gli occhi neri del toro e della donna al grido di “Carmen”.