La buona sorte di Tàlia - Le Cronache
Spettacolo e Cultura teatro

La buona sorte di Tàlia

La buona sorte di Tàlia

Sold out al Piccolo Teatro del Giullare per la compagnia PolisPapin con Ygramul Teatro, grazie alla performance di alle ottime doti performative di Cinzia Antifona, Valentina Greco e Francesca Pica

Di ARISTIDE FIORE

Confermando le attese, lo scorso fine settimana la Compagnia PolisPapin ha riscosso il tributo del pubblico del Piccolo Teatro del Giullare di Salerno, che, in due serate sold out, ha assistito a “Tàlia si è addormentata”. Con uno spettacolo sicuramente riuscito, prodotto da PolisPapin con Ygramul Teatro e affidato alle ottime doti performative di Cinzia Antifona, Valentina Greco e Francesca Pica, Francesco Petti ha portato in scena la “Bella addormentata” di Giambattista Basile, che nel Pentamerone, altrimenti noto come “Lo cunto de li cunti”, compare col titolo “Sole, Luna e Tàlia”: una favola per adulti nella quale sembra trionfare più il bello che il buono, essendo imperniata sul concepimento inconsapevole di due bambini, maschio e femmina, da parte della protagonista, violata da un re adultero dopo essere rimasta addormentata per un incantesimo e abbandonata da tutti. La buona sorte è il tema che sottende la storia, come ribadito dalla donna a cui è toccato narrarla ne “Lo cunto”: la fortuna reca ogni bene persino a chi dorme. Quel sonno tuttavia, repentinamente provocato e poi interrotto da eventi prodigiosi quanto banali, il dito punto dalla lisca di lino e l’estrazione di quest’ultima da parte dei due gemelli intenti a succhiare quello stesso dito anziché il capezzolo, è un’allegoria di quella fase transitoria dell’esistenza nella quale si diventa ciò che si è senza ancora saperlo. È la fine dell’età dell’innocenza: quella morte solo apparente ma comunque foriera di un cambiamento irreversibile rappresenta l’allontanamento dal padre, dalla condizione serena e sicura evocata dalla “ninna nanna” di Antonio Petti, musicata da Melisma. Il distacco definitivo, drammatizzato attraverso lo struggente ultimo dialogo tra genitore e figlia, nel corso del quale però le parole dell’uno e dell’altra non si incontrano, non corrispondono più, si configurano semmai come un doppio monologo, un contrappunto. Nel suo complesso il testo rispetta l’originale riprendendolo così com’è o ricalcandolo, sia pure attraverso l’italiano e altre lingue. L’estroso polimorfismo barocco viene anzi accentuato proprio dal ricorso al plurilinguismo e al grammelot, mentre alle enumerazioni di metafore mutuate dall’opera seicentesca si affiancano felicemente dei piccoli giochi linguistici. Vengono sfruttati insomma tutti gli accorgimenti verbali, mimici e scenici che hanno fatto grande la coeva commedia dell’arte. L’avvicendamento delle narratrici, che caratterizza la cornice dell’opera di Basile, si converte in questo caso in alternanza nell’interpretazione dei ruoli di un’unica storia, che si estende anche ai personaggi secondari, dando vita a esseri bizzarri, dal notevole impatto comico-grottesco, a tratti persino un po’ inquietanti. Si accordano in tal modo certi aspetti tenebrosi del gusto barocco, già presenti nella favola originale, alle sfumature gotiche e noir della sensibilità contemporanea, grazie anche alla tensione sostenuta dalle musiche dello stesso Francesco Petti e dal movimento continuo di uno strano meccanismo a orologeria. La macchina scenica ideata da Domenico Latronico costituisce il fulcro dell’azione. A ogni cambio di scena ne viene sottolineato il funzionamento perpetuo, inesorabile, quale segno tangibile dello scorrere del tempo e dell’immersione in una nuova fase della vicenda. La narrazione si apre e si chiude con le filastrocche, accompagnate da movimenti ritmici, perfettamente sincronizzati, delle tre Figlie del tempo, le cui figure sembrano richiamare il mito delle Parche, le tre sorelle che dipanano il filo della vita di ognuno, fino all’inevitabile taglio finale. Il continuo tendersi, intrecciarsi, iniziare e finire delle vite, il ripetersi di azioni e situazioni, sia pure sotto aspetti diversi, e il mutamento dei ruoli che, di volta in volta, il caso e la necessità assegnano a ciascuno, si condensano nella metafora del teatro, la dimensione ideale nella quale far vivere tutte le storie, raccontare tutti i racconti. Ed è per questo che, una volta giunta all’immancabile lieto fine, la storia si ripete, stavolta rappresentata da tre saltimbanchi invitati per i festeggiamenti voluti dal re per celebrare la felicità ritrovata.