It Don't Mean a Thing If It Ain't Got That Swing - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

It Don’t Mean a Thing If It Ain’t Got That Swing

It Don’t Mean a Thing If It Ain’t Got That Swing

 

Salerno entusiasta del jazz classico proposto dalla Big band dell’U.S Allied Forces Naples che ha chiuso le celebrazioni per il 72° anniversario dell’ operazione Avalanche

 

Di OLGA CHIEFFI

Abituale gran concorso di pubblico al teatro Augusteo, martedì sera, per il concerto della Big band delle Allied forces Band di stanza a Napoli, che ha offerto una serata di quel jazz con cui vennero a contatto i nostri genitori in quel lontano 1943. Big band classica quella diretta e orchestrata perfettamente dal nuovo direttore Jeremy Sauders polistrumentista, che ha staccato i tempi rimanendo seduto nella frontline dei cinque sax, occupando il leggio del primo alto e guidando una sezione ance che è molto migliorata dal suo arrivo. E si, ci permettiamo di azzardare un confronto poiché, oramai, grazie ad Eduardo Scotti gran cerimoniere e all’organizzatore Peppe Natella, degli strumentisti americani siamo diventati amici poiché, celebriamo con loro, da ben quattro anni, tra Museo dello Sbarco e Teatro dei Barbuti, l’anniversario dell’operazione Avalanche. In sala, il sindaco Enzo Napoli ha ricordato il tributo di vite offerto alla democrazia e alla libertà dall’esercito alleato, il nuovo comandante della Sixth  Fleet James Foggo ha ripercorso le tappe dello sbarco, i dubbi, il rischio, l’abnegazione dei comandanti del tempo, il trionfo dell’idea e l’emozione che ha provato calpestando quella stessa spiaggia ove toccarono terra i suoi predecessori settantadue anni or sono. Ultima a parlare, Colombia Barrosse il console americano a Napoli, born in New Orleans, la città del jazz, la quale ha invitato tutti ad affrontare le sfide che ci propone il nostro tempo con lo stesso coraggio con cui, ed io aggiungo tutti, italiani e americani, le affrontarono in quel decisivo 1943, rafforzando sempre più il legame tra i due stati. Un legame, quello con gli americani, che al tempo avvenne anche attraverso la musica. Foggo ha ricordato i numeri delle salmerie sbarcate sulle spiagge salernitane, scatole di carne, il latte condensato, la farinella di piselli, Camel e cioccolato, ma anche i famosi V disk e tanta musica, tanto swing. It don’t mean a thing if it ain’t got that swing diceva il trombettista di Ellington Bubber Miley, che in quei giorni del 1932 stava morendo di tubercolosi e Duke lo omaggiò di questa canzone che aprì la Swing era, perché esprimeva, come scrisse Ellington “Il sentimento musicale che era condiviso dalla maggioranza dei musicisti jazz dell’epoca”, e fu quello di un popolo. La band ha aperto il concerto con American Patrol, uno dei pezzi simbolo, insieme ad In the Mood che ha chiuso la serata, legati all’arrivo degli americani, note che ci hanno fatto intendere come nel suo procedere nel tempo lo swing sia stato sempre sorretto da una indiscussa, incredibile vitalità, un nesso sanguigno e vibrante tra epoche e stili succedentisi, che costituisce la prima e l’ultima caratteristica della musica jazz che, continuamente rinnova se stessa. Quindi, la formazione si è cimentata con un medley di Ellington, evocando Harlem Air Shaft, ispirato dalla miriade di suoni uditi nel cortile di un condominio Harlem una pagina in cui si sentono battibecchi di famiglia, si sente odore cena, si sente la gente che fa l’amore …, seguita da Black & Tan Fantasy, prima puntata di una saga sonora nata per descrivere il dramma del popolo sradicato dall’Africa Nera, forse attaccata in tempo troppo lento, secondo la versione del 1955 (consigliamo i tempi del 1927, più veloci e meno errorabili) dal M° Jeremy Saunders, il quale ha tenuto per sé il solo che fu di Johnny Hodges, ad oggi inavvicinabile, con le sue morbide acciaccature, il suo sound incantevolmente terso, il fraseggio asciutto, nervoso e agilissimo, la sua ricchezza espressiva, che poco concedeva a certo romanticismo di maniera, e il composto trombone di Jim Watkins. L’arrangiatore e pianista, Billy Strayhorn, ombra di Ellington che, prendendo spunto da un modo di dire del Duca, per cui la stazione metropolitana di linea “A” sulla 155 esima strada era solo a 15 minuti di distanza dalla parte centrale di Manhattan, compose Take the “A” Train , un pezzo in tempo medio-veloce, divenuto la sigla dell’orchestra, che ha chiuso giustamente l’omaggio al Duca, ha posto in luce diversi elementi della formazione a cominciare dall’ottimo pianista Steve Pendel, dal bel fraseggio e sensibilità ritmo-musicale, al quale il M° Saunders dovrebbe dedicare più spazio, la giovane tromba di Justin Malizia che, qualche volta, tradisce una spiccata urgenza espressiva e uno dei pilastri dell’orchestra, il flauto di Francesco Desiato, un estro inesauribile il suo, con un’idea di equilibrio e musicalità, fatta di oscillazione perfetta e sensata. L’orchestra ha quindi presentato il suo nuovo crooner Tony Garcia, un trombone che ama cantare, il quale ha eseguito, Come fly with me, Mack the knife, la sprezzante ballata da Die Dreigroschenoper col suo caratteristico passaggio di semitono e il mambetto Sway con gestualità fascinosa e comunicativa, prima di passare a uno dei brani storici dell’epopea del jazz “Sing,sing,sing!”, il punto d’incontro delle tradizioni bianche e nere del jazz che Benny Goodman rivelò al mondo quel 16 gennaio del 1938 alla Carnagie Hall. Applausi per il batterista Sam Stewart, protagonista del pezzo, “reminiscing” Gene Krupa, ma anche per l’intera esibizione, durante la quale non è ricorso a sotterfugi particolari, restando fedele ad una sana, schietta, onesta, moderna tradizione, a cui si può arrivare unicamente avendo tutte le carte in regola e giocandole con trasparente sincerità ed ironia e per il pulito clarinetto di Mark Heskett, nel solo che era di Benny Goodman. J’ve got crusch of you elegante song firmato da George Gershwin affidato al trombone di Jim Watkins e la chicca Cute, per ricordare il Count di New York, con Francesco Desiato al flauto, il quale si è fatto apprezzare per il suo eloquio duttile nell’enunciazione stilistica, ora peculiarmente ispirato e complesso, ora rarefatto e soffuso, il quale ha lasciato emergere una particolare poliedricità, implacabilmente personalizzata da un’originalità definita in ogni dettaglio, che tende ad evidenziarsi nella scansione del fraseggio, nella ricercata preziosità dell’invenzione che ha pochi eguali. Tra le casacche bianche da marinaio spicca la fiamma dei Carabinieri: è la tromba swing tutta italiana di Salvatore Curcio che ha intonato ‘O sole mio, seguito a ruota da Francesco Desiato e dall’intera platea del teatro Augusteo, per poi passare “At the Woodchopper’s ball” per ricordare l’orchestra di Woody Herman in cui per l’occasione il band leader ha impugnato il clarinetto presentando il bel suono del sax tenore Everett Cencich. “Durante lo sbarco alleato – raccontava mio padre – Salerno era spesso attraversata da squadrette che suonavano marcette dixieland, militari o qualche pezzo adattabile alla sfilata, come Margie”. Il momento clou della serata è stato vissuto nella trasformazione dell’orchestra in street band, che ha attaccato Bourbon Street Parade, attraversando la platea del nostro teatro, mutata in una strada di New Orleans, suonando e cantando con coinvolgente allegria. Finale con un altro classico di Count Basie, April in Paris, appannaggio di tutti i grandi sassofonisti con un Saunders padrone assoluto del pezzo. Saluti su In the Mood forse, un po’ troppo veloce con il bel duel tra tenore e alto che ha chiuso in bellezza la serata.