“Il marito invisibile”, le derive del virtuale - Le Cronache
Spettacolo e Cultura teatro

“Il marito invisibile”, le derive del virtuale

“Il marito invisibile”, le derive del virtuale

di Gemma Criscuoli

Gentile, affascinante, capace di solleticare e di esaudire ogni desiderio tra le lenzuola, sempre pronto a trovare le parole giuste. Quale donna non si precipiterebbe a rotta di collo all’altare con un tale prodigio d’uomo? Dinanzi a tante doti, il fatto che non sia possibile percepirlo sul piano visivo diventa a dir poco trascurabile. Commedia agrodolce sulle derive del virtuale, “Il marito invisibile”, scritto e diretto da Edoardo Erba, ha aperto con successo la stagione di prosa del Teatro Verdi. Maria Amelia Monti (Fiamma) e Marina Massironi (Lorella) sono il punto di forza dello spettacolo, strutturato in funzione della versatilità e del sapiente senso del ritmo che caratterizzano le protagoniste. La storia è ambientata al tempo del lockdown, quando il flusso ininterrotto di video, post, foto, messaggi di ogni genere è divenuto una seconda pelle: non a caso, i brevi intervalli tra una fase e l’altra della vicenda sono scanditi dalla proiezione di tutto quello che le due donne vedono sul proprio cellulare, come se fosse impossibile restare, anche solo per un attimo, sole con i propri pensieri. La messinscena sottolinea subito l’ambiguo rapporto tra il reale e ciò che viaggia in rete: alle spalle delle interpreti domina il blue screen, mentre, al di sopra di esse, due schermi permettono allo spettatore di osservarle, come se partecipasse, a sua volta, alla loro videochiamata. Che dunque il video s’imponga prepotentemente nella fruizione dell’allestimento, è già un chiaro indizio della pervasione inarrestabile, e non di rado tirannica, della dimensione dei social. Elemento d’inquietudine, sia pur nella leggerezza dell’approccio, è inoltre il blue screen, che mostra di fatto il carattere fittizio dello spazio in cui le due amiche si muovono, rendendo le loro case (luogo privilegiato del vissuto) artificiali quanto la comunicazione on-line. Il marito di Fiamma, che non compare mai in scena e non la distinguerebbe da una suppellettile, dato il loro noioso e lungo matrimonio, non è certamente più reale di Lukas, il coniuge che dà il titolo allo spettacolo e conquista sia l’esuberante Lorella che la razionale e caustica amica. Se un seduttore invisibile crea sensazioni più che concrete, non solo la fame di emozioni rende superfluo distinguere materiale e immateriale, ma diviene facile pensare che il corpo (con le sue fragilità, i suoi limiti, i suoi abbagli) debba essere superato, fino a divenire libera, incontenibile energia. Lukas è un bluff : tradisce esattamente come un qualunque borghese, ma il suo rapporto con gli istinti non teme vincoli di sorta. Il definito risulta così ampiamente surclassato dall’indefinibile. Ecco allora che la smaterializzazione coinvolge prima Lorella: la dissoluzione della sua immagine inizia nel momento in cui comprende che, nonostante recriminazioni e suppliche, il marito non tornerà da lei. Mutarsi in un mare di pixel significa abbandonare per sempre la logica relazionale in cui si tenga il conto del dare e dell’avere, scegliendo dunque un modo nuovo di essere. Fiamma, che si è data a Lukas per poi respingerlo, dato l’affetto per Lorella, la segue in questo destino : chi può resistere al richiamo della libertà? Nella conclusione, le due sono ormai solo una scritta su un dispositivo, ben liete di essere ormai lontane da qualunque concetto di spazio e di tempo. Un lieto fine? A prima vista, si direbbe di sì, dato che la fuga oltre la materia è occasione di gioia. La pièce non vuole certo demonizzare quel cordone ombelicale che ormai lega noi tutti al virtuale, ma invitare a guardare con ironia agli sviluppi paradossali che un simile legame comporta. Capovolgere il dominio assoluto della tecnologia in vittoria dell’umano (Lorella e Fiamma affermano infattti che sono tantissimi ad abitare il regno dell’invisibile e a esserne deliziati) esorcizza la frustrazione della solitudine, ma non la cancella. Il felice delirio del sapersi parte della galassia virtuale riflette comunque il fallimento delle relazioni, l’incapacità di rendere fertile un contatto che non sia filtrato attraverso strumenti onnipresenti. Il blue screen, in cui siamo avvolti senza accorgercene e senza nessuna avvisaglia, è la vanità di una vita che non sa bastare a se stessa, diventando un fantasma più evanescente di quello che uno schermo ci restituisce