Il labirinto e l’alta torre di Babele - Le Cronache
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    Il labirinto e l’alta torre di Babele

    Il labirinto e l’alta torre di Babele

 Rino Mele

La guerra e le epidemie c’inorridiscono, così i grandi sommovimenti naturali, alluvioni, inondazioni catastrofiche, terremoti, eruzioni vulcaniche, orrende desertificazioni e mortali siccità: ma solo quando ne siamo coinvolti, e il male sta per oltrepassare la soglia della nostra casa, e già sentiamo afferrare la nostra mano e tirarci verso un freddo pozzo di orrore. Allora ne comprendiamo la terrificante violenza, da spettatori rassicurati dalla distanza diventiamo attori e quello che prima ci appariva lontano ora appartiene al nostro respiro.   Prima vedevamo da lontano i disastri e potevamo esercitarci, con una certa sincerità, nella retorica della partecipazione. Ora, poveramente, ci siamo noi davanti al nostro sguardo. Non ci chiediamo nemmeno più cosa ne sia dei campi di concentramento in Libia per gli infelicissimi migranti chiusi nella trappola di un gioco feroce, Che ne sia dell’isola di Lesbo, dove Turchia e Grecia si fronteggiano sul muro verticale dei corpi delle vittime, che respingono verso il nulla. Che ne sia dei conflitti in Siria, in Afghanistan, in Iraq, della guerra civile in Somalia. Non riusciamo più nemmeno a provare, non dico pena e dolore per questi problemi, che prima seguivamo con interesse ma nemmeno a provare curiosità per quello che accade più in là della nostra paura.                                                   Ci siamo avvicinati a una verità più profonda e indicibile, piccoli animali resi impuri dal linguaggio, inseguiti dal bisogno di custodire la nostra vita: amiamo gli altri ma gli altri sono sempre lontani, fanno parte di un film che non sempre c’interessa di vedere per intero.                                                   Costretti in luoghi chiusi o tentiamo la via della stupidità, inviando agli amici vignette e figurine, o dobbiamo fare i conti con noi stessi.                                                                                 Quali sono i mitici luoghi chiusi da cui non si può uscire secondo il bisogno o il capriccio, una volta entrati? Per Dante gli spazi dell’al di là, l’inconoscibile altrove, subito l’Inferno (“lasciate ogni speranza” etc), per la mitologia classica il labirinto di Creta dal quale lo stesso autore, l’immaginifico architetto Dedalo, e suo figlio Icaro, poterono evadere solo tentando un impossibile volo (che costò la vita al più giovane, per lo stupore e la vertiginosa ebbrezza di sentirsi sospeso sempre più nel profondo abisso dell’aria), per la mitologia ebraica la torre di Babele e ce lo racconta l’undicesimo capitolo della “Genesi”.                                                                                     Pieter Bruegel la dipinse in due meravigliose opere (olio su tavola): nella seconda di esse (1563) la mostra in costruzione quasi guardandola dall’alto. In essa possiamo vedere una sequenza enigmatica di stanze disorientanti: i costruttori del superbo edificio non poterono sciogliersi dall’insidia dei loro nuovi aggressivi linguaggi, e finirono col disperdersi. Alla torre di Babele, Borges dedicò un breve saggio nel 1986, proprio l’anno in cui – il 14 giugno – morì: “La torre di Babele sarebbe un’altra forma dell’Albero della Scienza, vietata al primo uomo” scrisse con la sua cieca vista acutissima, cui niente sembrava precluso.                                                                                              Nel 1985-1986 Vincenzo Vitiello, inquieto e bravissimo filosofo (tra i suoi ultimi libri pregevoli libri, “Hegel in Italia” nel 2018 e dello stesso anno, insieme a Severino, “Dell’essere e del possibile”), Andrea Manzi del “Mattino”, alcuni professori dell’Università di Salerno e io prendemmo a riunirci in un’aula dell’Ateneo, per progettare un Convegno, un incontro internazionale: spinti dall’amore che Manzi aveva per il poeta di cui struggeva la sua giovinezza, Dino Campana. Avevamo pensato, insieme ad altre suggestive proposte, di coinvolgere Borges: c’era, tra noi, una professoressa che sapeva come mettersi in contatto con la collaboratrice più stretta dell’autore de “L’Aleph”. L’unico ordinario era Vitiello e lo faceva avvertire, ma eravamo tutti abbastanza autonomi, anche perché non del suo Istituto di Filosofia, e le discussioni duravano molto. Quando si pensò al nome da dare al Convegno ricordo d’aver subito proposto “La parola malata” sia pensando ai versi di Campana, per il quale c’eravamo inizialmente riuniti – e alla malattia irrimediabile dell’anima che la sua Chimera portava con sé – sia alla poesia in generale, così vicina al delirio dei folli e al felice balbettio dell’infanzia. Ma Vitiello immediatamente s’oppose senza proporre un altro titolo. Intanto, avevamo ormai il contatto con Borges e dovevamo scrivergli per comunicargli il nostro progetto. Quel giorno, Vitiello arrivò in ritardo e gli chiedemmo di ascoltare la lunga lettera che nel frattempo avevamo preparato, aggiungendo di portare tutte le correzioni e integrazioni che avesse voluto. Ma lui subito disse che non se ne parlava proprio di leggere quello che avevamo scritto e si mise a dettare la sua lettera. Così andammo avanti per molte sedute, parlando e riparlando, poi non c’incontrammo più. Dopo pochi mesi Borges morì. Il suo ultimo lavoro fu proprio un breve saggio dedicato alla torre, “L’ombra di Babele”.                                                                     Quella Babele che noi viviamo ogni giorno nella nostra esperienza e che potremmo racchiudere in una frase di Jacques Lacan (sembra un sintomo della nostra difficile e controversa maturità): “La confusione delle lingue in cui Ferenczi designa la legge del rapporto bambino-adulto”: lo scosceso disperderci che ci accompagna fino alla fine.