Fra torsioni e svenimenti - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

Fra torsioni e svenimenti

Fra torsioni e svenimenti

E’ in libreria il volume di poesia di Mario Fresa per il Melangolo di Genova

 Di ENZO REGA

Ha ragione Eugenio Lucrezi introducendo il libro di Mario Fresa, Svenimenti a distanza(Il Melangolo, Genova, 2018) ad affermare che, nonostante il prosimetro, questa scrittura non può essere ascritta né alla tradizione né alla neoavanguardia, non guarda nostalgicamente indietro e neppure in avanti verso una terra del futuro. Possiamo dire che se ne sta in un felice non-luogo, in una magica sospensione quale è possibile alla poesia, a differenza di tanta narrativa protesa verso fruibilità commerciali. Sospensione possibile quando un autore, come in questo caso, ne è capace. È un libro attraversato dalla malattia e dalla sofferenza, della quale però cogliamo soprattutto i sintomi e gli epifenomeni, come appunto gli svenimenti che, a distanza di pagine, fanno la loro ricomparsa. Si tratta di una storia che appare solo per scorci, o in trasparenza attraverso la lastra di una radiografia. Oppure, meglio, si potrebbe dire che quella tecnica del decollage, a cui Fresa fa riferimento, sia adoperata per questo stesso libro. Una poesia per decollage e decoupage. Come se il manifesto di una vita, o di più vite, sia stato scollato dal muro dell’esistenza e incollato sul piano delle pagine del libro, per lavorarci ulteriormente, strappi su strappi, facendo emergere strati sottostanti in un gioco di immagini che non si ricompongono più in un discorso logico-sequenziale ma analogico-metamorfico. In questo senso si può parlare di torsione della scrittura, ma non sul piano dei legami sintattico-grammaticali che rimane assolutamente terso, quanto piuttosto delle connessioni semantico-contenutistiche, come se alterata fosse la consecutiodei significanti-significati. A un certo punto l’autore parla di “suoni narrazioni” (p. 104), come se la narrazione si disarticolasse nei suoni che pure la portano avanti.  Questo nonostante le sezioni scritte in prosa – la prima e la penultima  – e benché gli stessi versi della prosa, del racconto “apparente”, prendano spesso l’andamento. Viene in mente l’ellittico annotare di un Peter Handke, anche per una certa “grana della voce” o di un ormai dimenticato Botho Strauss: penso in particolare al folgorante “Coppie, passanti” del 1981. Handke e Strauss, un austriaco e un tedesco, nomi che affiancherei ai mitteleuropei Thomas Bernard e Kafka citati (oltre a Beckett) al riguardo da Lucrezi. Ma a ben vedere questo narrare a strappi e un certo carattere polifonico possono ricordare pure certa poesia di Maurizio Cucchi che ha accompagnato le prime prove in volume di Fresa. Un certo affacciarsi di più voci o di diverse modulazioni di una stessa voce attraverso vestigia nuove.  Ma che cosa narra, pur non raccontando (o che cosa racconta pur narrando) Fresa? Vediamo susseguirsi, tra l’altro, in queste pagine interni ospedalieri e interni scolastici, che si presume derivino – gli ultimi – dalla professione dell’autore, con frequenti riferimenti politici. La prima sezione s’intitola “Convalescenza”, ma nelle onde che pervadono il libro ritroviamo quest’ambientazione anche (ormai verso la fine) in “Falsa testimonianza”: “Il discorso sarebbe, cioè, pericoloso. Mi chiedono notizie: da quanto tempo sono qui; perché, tra l’altro, sono finito, insomma, in un ospedale così lontano. Stesse risposte: Sant’Enrico mi ha salvato dai pischelli inferociti. Le prefiche mi hanno rincorso ed è successo il finimondo. Come saprete, sono impazzite per il dolore di aver appreso la notizia della mia traslazione. Volevano piangermi ancora, fare sapere a tutti che, in fondo, non me l’ero meritato? Volevano aggiungere, chissà, che avrei potuto combinare qualcosa? E soprattutto: credi davvero che potremo continuare a vivere così” (p. 117). Il susseguirsi di elementi non ci fornisce informazioni precise, eppure ci trasmette il senso di malessere d’una condizione esistenziale. E subito dopo, in un altro paragrafo di questo stesso testo, ambientato – come ci informa una nota – durante un incontro scuola-famiglia, ecco questo resoconto parimenti debordante e spiazzante: “La caduta sia vigorosa: come un padrone in vacanza, dice il capo, soddisfatto a metà. All’improvviso c’è l’ingiustizia per tutto l’Ufficio, e noi che siamo educatori! Dovremmo essere i primi! Ma fare peggio non si può, non si deve. In una riunione, cioè, fingiamo meglio tutti quanti. Così dietro la porta noi ci lasciamo andare a qualche bel malestro che poi ci fa sorridere non poco, nessuno, però, vuol camminare in questa direzione dove gli stessi genitori ti ripetono forte: ma mio figlio, proprio stamane, era davvero quasi preparato! Discorso-laccio di tigre affumicata; bocca che guida nella quiete ansiosa della famiglia una solenne cretinata: le gambe rigide, alla fine, risalirono mica per le strade torbidissime dei piccoli interessi?” (p. 118). E ancora più avanti: “Fare politica , noi due, ma che scherziamo? Non so nemmeno se sono arrivati. E qualcuno vorrebbe intervenire, risarcire, togliere tutto di mezzo in una volta: cancelliamo queste inutili tue resistenze, e così saremo amici” (p. 125). Gli elementi introdotti a un certo punto ci piantano in asso in una sensazione centrifuga di dispersione, tanto da poter ripensare al “disperso” di Cucchi: colui che si disperde ma anche il frutto della “dispersione” i cui frammenti sono raccolti in un moto che a sua volta diventa centripeto, cioè intorno a dei fuochi, dei topoi, fondamentali. La verità appunto viene fuori a strappi: “Lacuna, verità” leggiamo a un certo punto (p. 90). E forse tutto non si può dire: “Non si può nemmeno essere franchi” (ivi). Da qui la falsa testimonianzadalla quale abbiamo tratto le precedenti citazioni in prosa su ospedale e scuola. Ma c’è come il senso di un processo kafkiano che incombe su tutto: “Questi stregoni del malaugurio mi mandano la costipazione e mi procurano addirittura anche lividi e verruche. Mi sono decisa a fotocopiare una lettera da spedire a tutti i miei conoscenti, avvertendoli che se dovessero leggere un messaggio scritto da me, non dovrebbero fidarsi fino in fondo del suo contenuto, perché potrebbe essere stata dettata dai figli di M., contro la mia stessa volontà” (pp. 120-121). E: “… mentre ti tenevo per un braccio, lì tra le sbarre, sotto gli occhi disgustati di un secondino” (p. 121). Qui, come altrove, compare una prima persona femminile. Quanto c’è di personale, autobiografico, dell’autore? Lui, o qualcuno, ci dice: “Lo ripeto, non sono io. Il succo, però, è lo stesso” (p. 123). E se all’inizio si afferma: “Qui c’è stato, c’è stato, eccome” (p. 17) il libro si chiude riavvolgendosi su stesso e dissonandosi: “Sembra che non ci sia mai stato, qui” p. 135). Come un palindromo, che è altro pur essendo lo stesso. A ritroso.