Cavalleria e Pagliacci le perle nere del teatro Verdi - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

Cavalleria e Pagliacci le perle nere del teatro Verdi

Cavalleria e Pagliacci le perle nere del teatro Verdi

Produzione da dimenticare, musicalmente, per i cast in cui hanno brillato unicamente Violeta Urmana e Valeria Sepe. La regia di Riccardo Canessa ha evidenziato elegantemente le ragioni estetiche dei due titoli

 Di OLGA CHIEFFI

 Teatro Verdi al completo per titoli quali Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni e Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, cui il pubblico non manca mai di ascoltare. Il sipario si è aperto su Cavalleria Rusticana, ancora una volta sul piccolo borgo marinaro, ricreato nelle scene di Alfredo Troisi nel 2011, attraversato, però da una statua vagante, una Maria Addolorata in carne ed ossa con velo nero in dosso, simbolo di Morte, felice intuizione di Riccardo Canessa, che ha firmato le regie di entrambi i titoli, riutilizzando gli stessi elementi scenografici della precedente produzione. Una Madonna che vaga per l’intera veglia pasquale in cerca del suo unico amore, Gesù, abbracciandolo trasfigurato, a mezzogiorno della mattina di Pasqua, che fa il doppio con Santuzza, la quale ritrova speranzosa il suo Turiddu, nello stesso momento, una Violeta Urmana di grande potenza, sulle tracce di quella indimenticabile schizzata da Ghena Dimitrova, nel nostro massimo, nel 1998. Il cast purtroppo si è rivelato nullo, nel confronto di questa punta di diamante. Meglio sarebbe stata una squadra di cantanti di medio livello che una sola eccellenza circondata da mediocri, a cominciare dal giovane tenore Dario Di Vietri, il quale ha esordito sporcando la Siciliana d’apertura interna di Turiddu, con problemi d’intonazione, un divario immenso con il soprano lituano, in perfetta sintonia con una parte, che pretende dominio dell’intera gamma di suoni, spolvero e una rilassata sicurezza. Alberto Mastromarino ha dato voce a Compare Alfio, eccellendo nel “parlato”, ma non nell’aria spiegata del carrettiere che è vissuta solo della chiarezza della parola, appena sufficienti la Lola di Natalia Verniol, con la sua aria “Fior di Giaggiolo”, che abbiamo colto nel suono del flauto di Antonio Senatore, e la Mamma Lucia di Francesca Franci. Il braccio destro di Daniel Oren, Carmine Pinto, cui è stato concesso di dirigere il dittico verista, poco ha appreso dal suo maestro, facendo di tutta l’erba un fascio, appiattendo un po’ tutti i tempi, per timore d’inciampare, i diversi movimenti dei temi contrastanti, i modi arcaici evocativi delle melodie, i temperamenti offerti dallo scivolìo cromatico, privi di intenzione i colori chiari della natura, rispecchianti quelli della fatalità amorosa e gli oscuri pugni delle percussioni e dei bassi che muovono il sangue, sino al breve intermezzo che ha vissuto unicamente del violino di Daniela Cammarano. Il coro preparato dal maestro Tiziana Carlini ha pagato le indecisioni del maestro nel “Viva il vino spumeggiante”, dopo aver concesso onorevole prova nella canzone del carrettiere e nell’ “Inneggiamo, il Signor non è morto”. Cambio di scena ed ecco i Pagliacci di Riccardo Canessa, interamente giocati su di un quadro di famiglia “Le marionette” di Maria Papaleo. Un lenzuolo, quello dei guitti che andavano a rallegrare i paeselli, diviene la discriminante tra i due prosceni, quello della vita e quello della finzione. Intellettuale la collaborazione dei figuranti- marionette, uscite dal quadro, che hanno truccato le quattro anime, evocando la “drammaturgia dell’angustia”, del Sartre di Huis Close, che costringe i dannati poiché sono tutti colpevoli, in un modo o in un altro, a mettersi a nudo e a manifestare la propria natura artificiale e allo stesso tempo universale di personaggi. Il direttore Carmine Pinto ha reso maggiormente in Pagliacci, opera certamente più difficile e complessa di Cavalleria Rusticana, concepita semplicemente, in forma diciamo “quartettistica”, con la sua allure melodica sovente debitrice del gusto vocale salottiero, una tranquilla continuità del “turpe” con la linea invitta del glorioso romanticismo. Piero Giuliacci, purtroppo non è più il Canio di cinque anni fa, la voce è oramai non più adatta ad evocare quel cupo e dolente declamato vocale che richiede il ruolo. Le avvisaglie si sono già avvertite nell’annuncio della recita “Un grande spettacolo!” “a 23 ore, poi il furibondo “Ridi Pagliaccio”, che ha fatto e fa la fortuna dell’opera, pur eseguito con pronuncia aggressiva e scolpita, ha rivelato tutta la fatica del cantante per giungere alla fine, per di più improvvidamente bissato con grande sforzo alla prima. Il personaggio di Nedda ci ha riservato una felice scoperta, Valeria Sepe, che ha ben figurato nei panni della fragile ballerina-marionetta beniamina di quel pubblico che non sa e non vuole distinguere le lacrime sul trucco che si disfa. Alberto Mastromarino si è preso la rivincita nei panni di Tonio, mentre il Silvio di Raffaele Raffio è ancora acerbissimo. Buona l’esecuzione della serenata di Arlecchino da parte di Francesco Pittari, nel ruolo di Peppe. Se la tromba di palcoscenico e i corni dell’Orchestra Filarmonica Salernitana hanno steccato, unitamente a qualche nota sfuggita ai tromboni, e si è dovuta registrare anche l’inattesa mancata amalgama dei celebrati legni della formazione nostrana, forse dovuta al cambio del primo oboe, dall’intonazione ondivaga, non ci sentiamo di attribuire l’intera colpa agli strumentisti ma ad un direttore che si è lasciato “sfilare” le redini dai suoi destrieri, non facendo “respirare” una tesissima orchestra che, in mancanza di Daniel Oren, è stata rimpinguata di giovani e inesperti rincalzi. Applausi per tutti e in particolare per le voci bianche di Silvana Noschese. Ultima replica domani alle ore 21.