Antonio Saviello e l'invenzione della gioia - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

Antonio Saviello e l’invenzione della gioia

Antonio Saviello e l’invenzione della gioia

La ricerca sofisticata dell’impasto con il segreto delle proporzioni degli ingredienti che variano secondo il tempo atmosferico, le stagioni, il locale è il successo del prodotto del grande pizzaiolo salernitano

 

Di OLGA CHIEFFI

La pizza, nella sua più elementare espressione, sarà stata anche inventata dai fenici, dai greci o dai cumani che, schiacciando a focaccia un po’ di farina lievitata e arrostendola su di una pietra rovente, avranno pur dato inizio alla più celebre trovata culinaria partenopea. Ma soltanto quando i napoletani conobbero il pomodoro, seppero schiacciarlo e strizzarlo e ricavarne la polpa e il sugo e sposare questo ortaggio a farina o a pesce, allora la pizza divenne veramente tale, si fece pasto e cena, merenda e spuntino, appetita dai popolani e da elegantoni, da buongustai e da frettolosi, saltò dai vicoli di Napoli alle avenues di Parigi, di Londra, di Francoforte, di New York, di Tokio, suscitando dovunque, e persino nelle sue peggiori confezioni, un delirio di entusiasmo senza limiti. Come? Se non è altro che un pezzetto di pasta ottenuta con acqua e farina e un pizzico di lievito naturale? Se non è altro che un disco spesso un centimetro sì e no, largo poco più di un palmo, spruzzato di sale, di olio, con qualche pomodoro maturo stracciatovi sopra e magari qualche fettina di bianca mozzarella, cotto per un minuto o poco più in un forno a legna?  Sissignori: non è altro che questo, la pizza. Ma provatela a non farla schiacciare da uno dei “pizzaioli” eredi di una tradizione che si perde nella notte dei tempi, provate a non usare l’olio nostro o i pomodori maturati fra Sebéto e Sele, a non mettervi la foglia di basilico, a non infornarla a passo di danza, a ritmo di larga onda nel bel forno di mattoni rossi, ampio come una stanza, ardente come il sangue di una ragazza, sostenuto nel suo fuoco da mucchi di asciuttissimi sarmenti che non lasciano se non lievi ceneri: e che pizza mai verrebbe fuori? Abbiamo incontrato in uno dei suoi diversi e richiestissimi start up Antonio Saviello, titolare della celebrata Pizzeria Saviello di San Mango Piemonte, passata nelle mani del figlio Andrea, ora in giro per l’Italia a divulgare il suo credo, la sua misteriosa formula, nata dal suo ozio creativo, dalla sua passione, rivelatasi a soli 15 anni. “Da ragazzo ho iniziato a impastare nella cucina di famiglia, le cavie erano i miei amici – racconta Antonio – poi, man mano ho osato sempre di più. Gli impasti catalogati nei manuali li ho sperimentati tutti, col lievito madre, con o senza zucchero, le diverse farine, sino ad inventare una mia particolare formula, che ogni pizzaiolo conserva gelosamente. Ho lavorato nella telefonia vent’anni, poi ho deciso di rischiare e seguire la strada della passione, ri-nascendo pizzaiolo, ho lavorato in club, in diversi locali, fino a creare la pizzeria Saviello in San Mango Piemonte, che dopo tanti anni di premiata attività ho affidato alle ormai esperte mani di mio figlio Fabio, il depositario dei miei segreti e io mi sono dato agli start up in tutta Italia, in particolare nel periodo estivo”. E’ finemente e semplicemente tecnica la spiegazione di Antonio sull’impasto che è basato sulla reazione Maillard per la maturazione, che gestisce a suo piacimento con una tabella ove sono segnate le giuste proporzioni per una pasta che per 40 chili di farina prevede solo 4 grammi di lievito e un tempo di preparazione che varia dalle 24, alle 36 e addirittura alle 48 ora a seconda del tempo atmosferico, del locale, dell’umidità della giornata, del vento. “La pizza è seguita dalla preparazione degli ingredienti, sino a quando arriva sul tavolo e da dietro al bancone la seguo con gli occhi, osservo la gente, se viene lasciata nel piatto, se è divorata con avidità, mi giovo delle critiche, dei commenti, amo sedermi, se possibile ai tavoli, per poter sempre migliorare”. Antonio ha “invaso” con la sua recherche sulla pizza e dintorni, l’intero Centro Sud, un menù, il suo, che va oltre le 27 pizze, quelle classiche e quelle gourmet, oppure gli si può ordinare un calzone fritto, o il panuozzo, ripieno di cigoli di maiale mozzarella, ricotta, pepata con garbo, una sorta di portafogli da cui vi si scioglieranno in bocca gli ingredienti, ridotti a laute delizie. Ma la regina resta sempre lei, la pizza. Il mistero non lo conosceremo mai, ma Antonio ci ha sussurrato che sul panetto dell’impasto, ci appoggia solo le mani. Ad Antonio la pizza si può ordinarla nelle sue varianti di prammatica o affidarsi al suo estro, al suo cimento, alla sua invenzione e vedervela davanti, sulla tavola, fumante, splendida, nel suo cerchio perfetto sollevato ai bordi da un anello più cupo, più scuro, con il suo alone di sottile magia con cui ci si nutre come cantando, come ridendo, cullandosi, quasi dicendo grazie alla vita, iniziando inappellabilmente dal cornicione per assaporarne il sublime impasto e rincorrendo con la lingua la punta di ogni triangolo, che ha stazionato per solo un minuto in forno, conservando, così, tutte le proprietà organolettiche degli ingredienti e del decoro. Si potrà anche capitare da soli nell’ Oasi del nostro chef: intorno a voi la fiamma del forno terrà compagnia, dietro il suo banco di marmo Antonio agiterà le sue mani impolverate di farina su quel disco che farà scivolare, indi, sul fondo dell’ardente forno, dal quale lo trarrà, con una più lunga pala di ferro, il “palino”. E’ un cerimoniale antico, perfetto, silenzioso, su un balletto che si svolge sotto i vostri occhi incantati e che, tuttavia, non svelerà nessun segreto, la pizza resterà ermetica e orfica, pitagorica e surrealista, come un cibo elargito dagli dei, anzi, da amici di vecchia data, in un momento di generoso affetto.