Violenza donne, tutto quello che c’è da sapere sul nuovo Ddl - Le Cronache
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Violenza donne, tutto quello che c’è da sapere sul nuovo Ddl

Violenza donne, tutto quello che c’è da sapere sul nuovo Ddl

di Monica De Santis

E’ stato approvato venerdì un disegno di legge, dal Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente Mario Draghi, del Ministro per le pari opportunità e la famiglia Elena Bonetti, del Ministro dell’interno Luciana Lamorgese e del Ministro della giustizia Marta Cartabia che introduce disposizioni per la prevenzione e il contrasto del fenomeno della violenza nei confronti delle donne e della violenza domestica. Il testo contiene un complesso di misure volte ad arricchire l’impianto delle misure di prevenzione contro tali forme di violenza e a tal fine interviene con modifiche al codice penale, al Codice di procedura penale, al Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione (decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159) e ad alcune leggi speciali. Il disegno di legge pone una particolare attenzione ai casi in cui tale fenomeno si manifesta in contesti familiari o nell’ambito di relazioni di convivenza, alla particolare vulnerabilità delle vittime, e agli specifici rischi di reiterazione e multilesività. Il provvedimento estende i reati per i quali scatta l’obbligo – da parte delle forze dell’ordine, dei presidi sanitari e delle istituzioni pubbliche che ricevono dalla vittima notizia dei reati considerati – di informare la vittima sui centri antiviolenza presenti sul territorio e di metterla in contatto con questi centri qualora ne faccia richiesta. Ma per capire bene di cosa si tratta e cosa prevede il nuovo provvedimento ci siamo rivolti all’avvocato penalista e socio dell’Aiga Salerno, Cristian Manniello, che ha illustrato i punti salienti del nuovo Ddl. “Se la sensibilità dimostrata dalla compagine governativa – che solo poche ora fa ha licenziato un nuovo disegno di legge sul tema della violenza di genere – non può che esser accolta con soddisfazione da tutta la società civile, funestata da un numero sempre troppo elevato di episodi di violenza contro le donne, l’illustrazione, ancorché sommaria, degli 11 articoli che saranno presto sottoposti al vaglio parlamentare non può che far discutere i tecnici, che potrebbero esser chiamati, un domani, alla concreta applicazione di quelle norme. Il dibattito più serrato, con ogni evidenza, è quello che si svolge sul terreno dell’arretramento delle garanzie individuali, a vantaggio dell’irrobustimento dell’apparato repressivo. Anzitutto, basti pensare che quest’ultimo intervento si pone sul solco tracciato da una serie di riforme che passano per la legge nr. 119/13 sul c.d. “femminicidio” e per la nr. 69/19 sul “codice rosso”, le quali, pur condividendo la logica dell’inasprimento sanzionatorio e del potenziamento degli strumenti messi nelle mani degli inquirenti, non sono state in grado di sconfiggere o, quanto meno, significativamente arginare il fenomeno della violenza nei confronti delle donne. Esiste pertanto il fondato timore che anche a questo ulteriore giro di vite non segua l’effetto sperato. L’errore prospettico, in realtà, risiede nel voler credere che il sistema penale, che per sua natura opera successivamente al verificarsi di un fatto di reato – il cui accertamento peraltro richiede tempo, ponderazione e l’esplicazione di tutte le garanzie per l’imputato – possa divenire quel fulmineo, infallibile strumento col quale debellare una volta per sempre la violenza contro le donne. Tale fenomeno, tuttavia, affonda le sue radici e prolifera, non tanto nelle falle della legislazione penale ovvero nelle zone franche del procedimento che la applica, quanto nell’incultura e nella mancanza di considerazione per la dignità della donna, proprie di coloro i quali commettono quei fatti di violenza. Le riforme, allora, dovrebbero concentrarsi non sugli effetti, bensì sulle cause, onde evitare che quelle norme sostanziali e procedurali su cui oggi si interviene, debbano trovare applicazione. Venendo ora ai contenuti del disegno di legge in questione o, quantomeno, alla loro concisa esposizione da parte delle ministre proponenti, è stato posto in risalto l’inserimento dei reati di violenza privata e di danneggiamento in quella magmatica definizione di violenza domestica, suscettibile di attivare – anche officiosamente – il potere di ammonimento da parte del questore: questa previsione consente di far luogo ad un formale avvertimento – avente carattere dissuasivo e natura extra-penale – nei confronti del soggetto che, in ambito domestico, abbia commesso tali fatti di reato, indicativi di una situazione che potrebbe divenire potenzialmente letale. L’intromissione non richiesta dello Stato e delle sue leggi entro le quattro mura che separano una famiglia dal mondo esterno è tematica assai delicata che riposa su di un equilibrio precario: è evidente che esso debba esser affidato al buon senso delle pubbliche autorità. Altro punto cui si è fatto un rapidissimo cenno durante la conferenza stampa, è quello relativo all’estensione, ai soggetti indagati per fatti riconducibili al genus della violenza domestica, delle misure di prevenzione personali: considerando che tali strumenti nascevano dall’esigenza di contrastare i preoccupanti fenomeni di criminalità organizzata – tant’è che il nucleo essenziale di tale disciplina si rinviene nel codice antimafia – non ci si può non domandare se l’ampliamento del loro perimetro applicativo possa fornire un efficace e calibrato mezzo di prevenzione rispetto agli episodi di violenza contro le donne. Il proposito di impiegare massivamente il braccialetto elettronico purtroppo non tiene in debito conto la scarsità, quando non l’indisponibilità, di tale strumento, circostanza, questa, che pone nel nulla l’indubbia utilità dello stesso, anche al fine di monitorare costantemente gli spostamenti dell’indagato, specie se esso fosse associato alla misura del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Quel che desta maggiori preoccupazioni, in ogni caso, è lo snaturamento dell’istituto del fermo di indiziato di delitto, ossia di quella misura precautelare appannaggio del pubblico ministero ovvero, in caso di urgenza, degli ufficiali ed agenti della polizia giudiziaria, che attribuisce loro il potere di limitare la libertà personale di un soggetto anche al di fuori delle ipotesi di flagrante reato, ferma la sua convalida ad opera del giudice. Ebbene, rimettere nelle mani degli inquirenti la complessa e delicata tematica della carcerazione preventiva – perigliosa anche quando a disporla sia un organo terzo – rischia di alterare definitivamente gli assetti dello stato di diritto, destinato ogni volta ad arretrate di fronte alle spinte securitarie imposte dalla constatata inefficacia degli strumenti preventivi rispetto alle devianze sociali. Le misure di natura più spiccatamente economiche – quali la provvisionale da attribuire alla presunta vittima sin dalla fase delle indagini preliminari, l’indennizzo agli orfani di femminicidio e i finanziamenti ai centri antiviolenza – sono invece da accogliere positivamente: la prima di queste, in particolare, ha il pregio di aver colto il peso della dipendenza economica della vittima nei confronti di quello che è il suo aguzzino. Da accogliere con favore è anche il potenziamento della funzione rieducativa della pena che, nella prospettiva di riforma, si declina nel subordinare la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena al fatto che il reo segua un corso di formazione che finalmente lo affranchi da quelle concezioni erronee sulla donna e sulla sua dignità in quanto tale. Resta un’ultima notazione, sulla quale si auspica che il dibattito parlamentare ponga il giusto accento: la c.d. vigilanza dinamica. Posto che il fenomeno su cui si intende intervenire, il più delle volte, vive di una escalation di violenze e che, considerati i fini e l’armamentario del processo penale, quest’ultimo non può essere l’unico strumento mediante il quale evitare che essa avvenga, non potrà che farsi luogo, tutte le volte in cui se ne dovesse ravvisare la necessità, al monitoraggio del luogo ove vive la vittima. In questo senso, il ddl prevedrebbe un’apposita comunicazione al prefetto, intesa ad attivare tale modalità di controllo, peraltro già proficuamente sperimentata anche in assenza di un’apposita previsione normativa, ma sulla base di comportamenti virtuosi. Cristian Manniello