Sergio Vecchio: "In my solitude" - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

Sergio Vecchio: “In my solitude”

Sergio Vecchio: “In my solitude”

Nella notte del fuoco l’artista presenterà al Museo Archeologico di Paestum il volume “Le stanze dell’eremita” edito da Oedipus

 Di OLGA CHIEFFI

“In my solitude/You haunt me/With dreadful ease/Of days gone by…” E’ questo l’incipit di “In my Solitude”, uno dei song più raffinati firmati da Duke Ellington, che ci è balenato in mente, avendo tra le mani l’ultimo lavoro editoriale di Sergio Vecchio, il pittore, stavolta anche cantore della sua Paestum, dal titolo “Le stanze dell’eremita”, in libreria per Oedipus. Il volume di oltre 130 pagine tra tavole e scritti, con il contributo in prefazione di Gabriel Zuchtriegel e Paolo Apolito, va a continuare, a distanza di un anno, quell’intervento creativo site-specific dell’ex fabbrica Cirio di Paestum, costruita nel 1907 su di un antico santuario dove, giudicando dal materiale archeologico trovato durante gli scavi, sorgeva anche il borgo medievale e, forse, la chiesa di Sancta Venera. Mercoledì sera, alle ore 18, nel Museo Archeologico di Paestum, Sergio Vecchio, ospite di Gabriel Zuchtriegel, unitamente a Paolo Apolito, presenterà il volume, nato da quell’esperienza di rivitalizzazione delle mura di quella fabbrica, una cui parte, appunto “Le stanze dell’eremita”, ha ripopolato con dee, cavalli, nottole, cani, bufale, uccelli, simboli del mito, con i quali, quelle pietre e lui stesso, convivono da sempre. Il volume, in cui i segni visivi e scritti, s’incontrano e si scambiano osmoticamente, è il riassunto del rapporto con la sua Paestum, un rapporto che nasce da lontano quando, da bambino, il futuro pittore alla stazione vede per la prima volta quella strana coppia, la Zancani Montuoro e Zanotti Bianco, lì per le loro prime ricerche archeologiche, restando totalmente attratto dall’anticonformismo dei due archeologi in un luogo dove gli argomenti erano il raccolto dei carciofi e la vendita delle mozzarelle. Loro arrivavano con il treno, nacque quasi un’amicizia, e di lì la volontà di fare il pittore, tradendo la promessa di avviarsi agli studi di archeologia. Il codice di Sergio si veste, qui, di altre forme, re-inventando e ri-definendo l’espressione comunicativa dello scrivere in quei territori che si pongono ai suoi confini ultimi, alle zone estreme dell’immaginazione poetica. Un genere non certo nuovo questo del libro d’artista che ripropone una riflessione sulla parola che si fa immagine, sulla parola resa oggetto nella caratterizzazione attuata da Sergio, il quale ha scelto questo “strumento particolare” per esprimere la propria ricerca. La scrittura si declina con sfumature ed interventi di livello differente tanto nella concezione e strutturazione, quanto negli esiti finali. L’artista riesce in tal modo a superare la natura fisica del libro, inteso come veicolo di conoscenza, dove le scritte nere si susseguono come bighe di formiche su terra bianca, rompendo la materia di cui è fatta la scrittura. Dal képos di parole emergono le figure delle dee, che si calano dolcemente in una dimensione umana, immedesimandosi nella stessa vegetazione e negli animali che le simboleggiano, ritornando tra le loro pietre, quale riconoscimento e governo di forze misteriose, con cui l’uomo fa i conti, nel suo rapporto con la natura che lo circonda, come un recinto, per la conservazione e la fondazione di una nuova vita. Dipingere per Sergio è, quindi, sognare e ricordare con le mani, cioè tramite una tecnica e, con questa, entrare nella buia tana dell’indicibile. Non il reale immediato, ma l’anima della realtà, attraverso la sua narrazione: questo è e vuole essere oggetto della mimesi, in Sergio Vecchio, per il quale si può affermare che lo spazio semantico specifico dell’immaginazione è formato sulla narrazione di ciò che sta dietro quella realtà che si offre, in prima istanza, come “scuola del vero”. Se è vero che una sola è l’immagine che il pittore dipinge per tutta la sua esistenza, è, questa immagine, sempre il racconto-sequenza dell’altra faccia del reale, della dimensione “altra” e unica della sua vita. Anima mundi, dunque, nel senso platonico o, almeno qui, rinascimentale soprattutto, della magia nelle cose, negli animali, nei luoghi, attraverso cui essi “parlano” e mostrano tensioni, simili o in continuità con quelle degli esseri umani, schizzando una realtà “ri-scoperta”.