Peppe Servillo, Modugno e il mito del volo nel Jazz - Le Cronache
Spettacolo e Cultura Musica

Peppe Servillo, Modugno e il mito del volo nel Jazz

Peppe Servillo, Modugno e il mito del volo nel Jazz

 

Massimo cittadino sold out per il progetto “Uomini in Frac”, tra Teatro e Musica

Di OLGA CHIEFFI

Un uditorio eterogeneo è stato accolto al teatro Verdi lo scorso week-end, che nella sua stagione lirica ha inteso inserire l’omaggio a Domenico Modugno, ideato da Peppe Servillo, il quale ha raccolto intorno a sé il top del bel jazz italiano dal sax argentino di Javier Girotto, alla tromba di Fabrizio Bosso, sino al pianoforte dal linguaggio di mai semplice tessitura ed armonia di Rita Marcotulli, una sezione ritmica di estrema eleganza, affidata a Furio Di Castri al contrabbasso e Mattia Barbieri alla batteria, in un omaggio a Domenico Modugno. Ne è venuto fuori un progetto che sicuramente ha soddisfatto i jazzofili, dato l’ elevato feeling tra gli strumentisti, con un Peppe Servillo, a volte un po’ fuori, né gli amanti di Mimmo Modugno. Il sipario si è levato su un tentativo di prova d’orchestra sull’evocazione del tema di volare, una prova di “volo” musicale, un universo di suoni, una ricerca e un tentativo di far musica insieme, col suo fascino sonoro e il suo possesso, la sua componente di umanità nel segno di Domenico Modugno, la sua “rappresentazione” in musica, con una splendida Selene. Gli arrangiamenti hanno cercato di porre in luce il “nero” della canzone di Modugno, sposandola all’idea di innovazione continua che è alla base del linguaggio jazzistico, il mito afro-americano del volo. Selene in forma strumentale ha inaugurato la lunga scaletta, presentando una band sopra le righe, in particolare i fiati, con l’ancia del soprano di Javier Girotto che ha imposto il suo carisma da subito, in eterno duel con la tromba di Fabrizio Bosso. Il brano ha fatto da preludio all’entrata di Peppe Servillo che ha esordito col suo abituale ringraziamento al pubblico e la presentazione degli “uomini in frac”, prima di  attaccare una “parlata”, “Tu si na’ cosa grande”, in forte contrasto con i fiati,  qui e per buona parte delle successive canzoni, che avrebbero dovuto inserirsi con molta discrezione, su di una voce del tutto teatrale. E’ tellurica “‘A montagna”, “Strada ‘nfosa”, saluta l’intenso solo d’apertura di Furio di Castri,  mentre ha molto poco del night club, e del sogno, “Notte di luna calante”, in versione strumentale. Un angolo di infinita eleganza se lo è ritagliato il pianoforte di Rita Marcotulli. Tecnica superlativa, ha dato corpo al suo tema del viaggio, speziando anche l’intro di “Vecchio Frac”. La sofisticata canzone ha salutato protagonista Peppe Servillo che ne ha fornito una versione molto “squadrata”, alla ricerca di un’atmosfera al di fuori di ogni tempo. Una recitata Lazzarella, con i fiati a farla da padrona in un contrappunto non perfettamente eseguito e Peppe Servillo ancora protagonista con “Amara terra mia”, “Sole malato”, “Lu pisci spada”, storia di mare, con Javier Girotto al tamburo a ritmare intrisa d’amore e morte, fino gran finale con una sussurrata “Resta cu’ mme”, cantata nel testo originale, conclusa con un “Speriamo che la censura non intervenga mai piu’”. Volare, al quale ha partecipato l’intero teatro ha chiuso il programma ufficiale. Il mito del volo di Modugno, che ci ha fatto pensare a “Le coq rouge” di Marc Chagall, lo abbiamo ritrovato nel sax soprano di Javier Girotto, nei suoi soli basati sulle sue progressioni ascendenti che si precipitano sul registro grave, le sue repentine cadute con figurazioni sempre diverse, il suo forsennato cromatismo, che frantuma ogni schema ritmico e armonico, e nella tromba di Bosso con i suoi suoni fuori registro, ad “inseguire” in cielo i capiscuola del suo strumento. Applausi convinti del pubblico per tutti e un bis, un deludente, in un arrangiamento che esula dalla poesia di Modugno e Pasolini, di “Cosa sono le nuvole”, sulle cui note e parole, Jago (Totò) e Otello (Ninetto Davoli) scoprivano morendo da marionette, in un immondezzaio, cosa avevano perso: la vita come basilarità, come verità inenarrabile della bellezza che non ha tempo, né nome, il “volo” dell’Arte.