Oltre San Matteo: La battaglia più alta della Prima Guerra Mondiale - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

Oltre San Matteo: La battaglia più alta della Prima Guerra Mondiale

Oltre San Matteo: La battaglia più alta della Prima Guerra Mondiale

Ripercorriamo le vicende della grande guerra, nell’anno celebrativo del Centenario, e in particolare quella di Arnaldo Berni e del suo battaglione Monte Ortles protagonista dell’ epica battaglia di punta San Matteo, tra rocce e i resti delle trincee

 

Di OLGA CHIEFFI

21 settembre 1867, festa di San Matteo: Julius Payer, ufficiale austroungarico nato in Boemia nel 1841 e metodico frequentatore dell’Ortles-Cevedale, è impegnato nella seconda ascensione di una cima di quel gruppo, già scalata due anni prima da J.H. Backhouse, G.H. Fox, D.W. Freshfield e F.F. Tuckett con le guide François Dévouassoud e Peter Michel. A un tratto una cornice di neve cede, per Payer potrebbe essere la fine ma accade il miracolo: il nostro rimane incolume e decide di dedicare quella vetta, ancora senza nome, al primo evangelista. In seguito Payer effettua delle esplorazioni artiche, scopre la Terra di Francesco Giuseppe (1873), diventa pittore e nel 1915, con l’Europa ormai stordita dal rombo dei cannoni, ci lascia per sempre. Il suo nome è legato al rifugio che dal 1875, a quota 3.029 metri, è un importante punto d’appoggio lontano dal fondovalle sul versante settentrionale dell’Ortles. Sulla Punta San Matteo (3.678 m), però, non tutti sono stati fortunati come Julius Payer. Egli giunse lassù in tempo di pace mentre altri giovani, soldati come lui, mezzo secolo più tardi si contesero quella vetta durante la guerra, diventando loro malgrado attori del «fatto d’arme più alto del mondo»  la battaglia del San Matteo. Da lassù, nel 1918, gli austroungarici controllavano la strada del passo di Gavia. Il 13 agosto, tuttavia, gli alpini della 307ª compagnia del battaglione Monte Ortles, guidati dal ventiquattrenne capitano Arnaldo Berni, furono protagonisti di un attacco a sorpresa e riuscirono a occupare la cima. Ma i soldati imperiali organizzarono il contrattacco: «C’è il continuo tormento da parte del nemico che invano cerca di farci danno per costringerci ad abbandonare la posizione. Ma quassù – si legge nell’ultima lettera del capitano Berni, datata 31 agosto 1918 – ci sono i bravi alpini della 307ª del Battaglione Ortler e nessun nemico riuscirà a sopraffarli!». Tre giorni dopo gli austroungarici attaccarono massicciamente la Punta San Matteo e per Berni e i suoi uomini non ci fu nulla da fare. Scrisse Bruno Credaro: «Enormi blocchi di ghiaccio venivano staccati dalle granate e crollavano nel trincerone, caposaldo della difesa. Il Capitano Berni era nel punto più esposto quando una franata di ghiaccio lo seppellì in quella tomba di cristallo, che diventò per sempre la sua tomba. E bene fecero gli amici a lasciarlo lassù, perché non avrebbe desiderato altro posto per quel suo corpo atletico che racchiudeva l’animo e i sogni di un fanciullo decenne». Berni muore tre giorni dopo, il 3 settembre 1918, e con lui, e con quelli come lui, se ne vanno le ultime speranze di vittoria sul fronte alpino. La Guerra Bianca si poteva combattere, ma non vincere. La Guerra Bianca si mangiò vite, sentimenti e speranze come ogni altra macchina di guerra. Il motore era lo stesso: facile da accendere, impossibile da spegnere. La vera differenza la fece la montagna, che impose il suo codice ambientale sulle ragioni del conflitto. Per combattere tra i seracchi di ghiaccio, sulle cenge e sui muri a strapiombo bisognava essere alpinisti prima che soldati, e questo rivoluzionò le scelte e le strategie, le gerarchie e i rapporti umani, anteponendo il montanaro al soldato e l’alpinista al guerriero. Quando il rocciatore nemico saliva con corda e chiodi una difficile parete di calcare, per prima cosa lo guardavano arrampicare, poi lo ammiravano, infine gli sparavano addosso. E se un alpino sciatore scodinzolava sulla neve primaverile dell’Adamello, le sentinelle austriache commentavano lo stile di discesa prima di puntargli contro la mitragliatrice. Molto si è scritto sugli errori delle truppe italiane nella primavera del 1915, quando tardando a presidiare le creste di confine ci si giocò la possibilità di una veloce e forse decisiva discesa nel Tirolo. Si sa molto meno dei sentimenti dei soldati alpini e alpinisti, del loro orgoglioso codice montanaro, della resistenza ascetica sulle creste e nei rifugi. Solo i diari e le lettere che i soldati scrivevano senza sosta pensando ai parenti e alle morose possono raccontarci quello che vissero sul fronte delle Alpi. Chi operò sui terreni d’alta quota dovette per forza indossare una doppia divisa e una duplice personalità: combattente e scalatore, sottoposto e maestro, recluta e veterano. La montagna stabiliva i ruoli e la guerra li ribaltava. E viceversa. Sopra i duemila metri prevaleva l’esperienza del montanaro, sotto comandavano le gerarchie militari. Sopra erano le piccozze e sotto i cannoni a dire l’ultima parola, e le due dottrine si snaturavano reciprocamente nel tentativo di conciliare due leggi inconciliabili. Perché nessun alpinista avrebbe mai affrontato la montagna con la tempesta e la neve alla pancia se la guerra non gliel’avesse imposto, e nessun militare avrebbe dichiarato guerra a una guglia di roccia se la frontiera non fosse passata per di là. Nel Quindici-diciotto era pesante anche l’aria, ed era pieno anche il vuoto.