Morto zi Ninuccio, uno degli ultimi uomini d’onore. Marandino ’ spirato nell’ospedale Cardarelli. Stava male da mesi: più volte la famiglia ha fatto richiesta dei domiciliari proprio per le pessime condizioni - Le Cronache
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Morto zi Ninuccio, uno degli ultimi uomini d’onore. Marandino ’ spirato nell’ospedale Cardarelli. Stava male da mesi: più volte la famiglia ha fatto richiesta dei domiciliari proprio per le pessime condizioni

Morto zi Ninuccio, uno degli ultimi uomini d’onore. Marandino ’ spirato nell’ospedale Cardarelli. Stava male da mesi: più volte la famiglia ha fatto richiesta dei domiciliari proprio per le pessime condizioni

di Pina Ferro

E’ morto a pochi mesi di distanza dal suo mentore. Alle tre di ieri mattina è spirato l’84enne Giovanni, Ninuccio Marandino, ultimo boss della Nco, Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. Appartenneva alla categoria dei vecchi uomini d’onore. Residente a Ponte Barizzo – Capaccio, Marandino, ritenuto essere stato il cassiere del professore di Ottaviano, lo scorso febbraio, era tornato in carcere per l’esecuzione di un’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Salerno, emessa su richiesta della Procura salernitana nell’ambito di un’indagine su presunti casi di usura. Marandino si è spento nell’ospedale “Cardarelli” di Napoli, dove era stato portato per un peggioramento delle sue condizioni di salute. A Capaccio vivono la compagna Ada Di Agostino ed i figli Pasquale, Emanuell e Maria Rosaria. Con lui cala il sipario, per sempre, su tanti segreti della famigerata consorteria criminale della camorra napoletana guidata da Raffaele Cutolo, di cui Marandino fu il cassiere fidato. Nella latitanza del superboss ad Albanella, fu proprio Ninuccio a “coprirlo”. Nell’estate del 1986, in un agguato, fu assassinato il figlio e primogenito di Ninuccio, Vincenzo Marandino, avuto dalla prima moglie. Giovanni Marandino, 85 anni, stava male da mesi: più volte la famiglia ha fatto richiesta dei domiciliari proprio per le pessime condizioni che, giorno dopo giorno, diventavano sempre più gravi. Le perizie però richieste dal giudice di sorveglianza hanno sempre riportato che le condizioni dell’ex boss fossero adatte al regime carcerario. Dimagrito di oltre 20 chili, faceva così la spola tra la casa circondariale partenopea e il “Cardarelli”: nel frattempo, è caduto e si rotto un femore (operato dopo 20 giorni), ma nonostante questo non c’è stata clemenza e non gli è stato consentito di essere curato a casa propria. Negati anche i funerali, inizialmente previsti per sabato mattina nella chiesa di Ponte Barizzo. Giovanni Marandino appartiene alla schiera dei cosiddetti “uomini d’onore” vecchio stampo della criminalità organizzata: come il leader e fondatore della Nuova Camorra Organizzata, zi Ninuccio non si è mai pentito, seppur ristretto, in passato, anche al 41 bis in regime di carcere duro. Pur avendo perso un figlio in un brutale agguato, non ha mai parlato né collaborato con la giustizia, portando via con sé segreti e misteri di una carriera criminale in continua ascesa ed evoluzione durata 60 anni.

“Cronaca di una morte annunciata in solitudine nel carcere”

Giovanni Marandino era detenuto nel carcere di Poggioreale dal mese di febbraio di quest’anno, accusato di usura. Sul decesso di zi Ninuccio è intervenuto Samuele Ciambriello Garante Campano dei detenuti: “Marandino era una persona anziana con un passato con precedenti penali ma questo giustifica il fatto che da febbraio di quest’anno sia stato fatto morire nell’assoluta solitudine senza il conforto dei familiari presso L’ospedale Cardarelli di Napoli? La tutela della salute, della vita e dell’età avanzata sono prioritarie rispetto alle misure cautelari? Io credo che è questa la domanda da porci, non solo per umanità, che negli ultimi tempi pare sia diventata merce rara, ma anche per misurare l’efficienza e l’efficacia di un sistema penale e detentivo che rimuove ogni problema trincerandosi dietro a vincoli burocratici e un gioco a rimpiattino sulle diverse competenze (Magistratura, sanità penitenziaria, periti di parte…). Da mesi, più volte interpellato dai familiari, ho seguito il caso di Giovanni in carcere e sono andato domenica scorsa a trovarlo in Ospedale al Cardarelli. Davanti a me un vecchio in fin di vita non in grado di intendere e volere. Tra l’altro in cella a Poggioreale era recentemente caduto, spezzandosi il femore, ed subendo un’operazione; non poteva nemmeno usufruire dell’ora d’aria e, considerate le sue patologie, gli era stato assegnato un piantone. Una persona anziana arrivata in carcere in autoambulanza ne esce nella bara!!!! Questo è accanimento giudiziario e altro.”

Il 9 settembre scorso era arrivato il mai fine pena per ‘a Scamarda

Solo un mese fa, Giovanni Marandino aveva appreso della condanna definitiva per l’autore dell’omicidio del figlio Vincenzo, ucciso nel 1986. Lo scorso 9 settembre gli Ermellini hanno confermato l’ergastolo per Umberto Adinolfi , il killer che il 30 luglio del 1986, a Capaccio Paestum, insieme ad un complice uccise Antonio Sabia e Vincenzo Marandino. ondannato all’ergastolo in primo grado il 20 settembre del 2017, dopo varie fasi processuali durate 31 anni, la conferma del ‘fine pena mai’ arrivò anche dalla Corte di Assise d’Appello di Salerno il 18 novembre 2019. Non è servito ad evitare il carcere a vita nemmeno il ricorso in Cassazione, con sentenza del 17 febbraio 2021, le cui motivazioni sono state pubblicate solo ieri. Gli ermellini, infatti, hanno ritenuto infondate tutte le eccezioni sollevate dai legali difensori di Adinolfi, detto ‘a scamarda, esponente di spicco della malavita nell’Agro Nocerino-Sarnese. Una sentenza che, dopo 35 anni, chiude definitivamente il sipario sull’efferato duplice assassinio di camorra. Nel 2009, la doppia condanna all’ergastolo fu annullata dai giudici della Suprema Corte per mero difetto di procedibilità, in quanto l’imputato, arrestato nel 2005 in Spagna dove era fuggito, non era stato ancora estradato. Gli atti furono così rimessi al pm ed il processo cominciò daccapo, conclusosi dunque con la medesima sentenza del primo procedimento, anche a seguito della confessione resa da Adinolfi a 31 anni dal duplice omicidio, ammettendo il delitto spiegando come vennero trucidati Enzo Marandino e il suo autista Sabia, che all’epoca avevano rispettivamente 29 e 26 anni. Adinolfi spiegò che, quell’estate di 31 anni fa, si trovava a Capaccio Paestum in visita da uno zio, quando ricevette l’improvvisa visita di Raffaele Mercurio, conosciuto anni addietro in Perù, che però non lo mise a conoscenza del suo piano omicida. Erano in auto entrambi a bordo di un’Autobianchi 112 quando, giunti a Ponte Barizzo per una commissione, Mercurio con l’ausilio di un binocolo individuò Sabia, il quale, essendo l’autista di Marandino, lo accompagnava ovunque. Fu in quel momento che decise che era giunta l’ora di vendicarsi per alcuni torti subiti dal figlio del boss nel carcere di Poggioreale. Improvvisamente, scese dall’auto e sparò contro i due, fino a quando l’arma non s’inceppò: fu allora che esortò Adinolfi a scendere ed a terminare il massacro. Per Marandino non ci fu scampo e morì sul colpo, mentre Sabia riuscì per un attimo a fuggire nei campi, ma fu raggiunto e ucciso da Mercurio, che aveva recuperato una seconda pistola, nascosta in auto. Dopo il duplice omicidio si diede alla latitanza, ma fu scovato ed arrestato in Spagna nel 2005. Dopo l’estradizione, si ritrovò alla sbarra più volte per difendersi delle accuse di essere un killer dei Cutoliani, venendo condannato già all’ergastolo per l’omicidio dell’ imprenditore, Giuseppe Vaccaro.