Michele Campanella e Monica Leone tra virtuosismo e poesia - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

Michele Campanella e Monica Leone tra virtuosismo e poesia

Michele Campanella e Monica Leone tra virtuosismo e poesia

 

Bagno di folla per la coppia d’arte e di vita che ha impreziosito con un intenso “quattromani” la seconda edizione della rassegna PianoSalernoForte

Di OLGA CHIEFFI

La formazione a quattro mani è uno strumento educativo eccezionale, sebbene non più considerato quanto lo era in passato: suonare con un partner significa innanzitutto imparare a calibrare il fraseggio in modo non solipsistico ma comunicativo, e i grandi duo sono spesso nati nelle aule dei conservatori. Anche la formazione composta da Michele Campanella e Monica Leone,  evento clou del cartellone allestito da Costantino Catena per la seconda edizione di PianoSalernoForte, promossa dall’EPT di Angela Pace nella incantevole cornice barocca della Chiesa di San Giorgio, è sgorgata dal transfert tra maestro e allievo che dalla tastiera del pianoforte ha invaso anche la vita tutta. L’apertura del programma è stata affidata alla Sonata in Do Maggiore KV 521, in cui gli interpreti sono riusciti a trovare un tocco di estrema leggerezza che, tuttavia, non è mai degenerato in mera superficialità, intensificando, così il fascino del primo movimento con l’assoluta purezza della tessitura. Pezzo per pianisti innamorati è certamente l’ Andante e Allegro brillante” in La maggiore op. 92” di Felix Mendelssohn Bartholdy, salon musik di difficile interpretazione, un duetto, in cui i due interpreti si scambiano lo spazio, possono toccarsi, intrecciarsi, dialogare anche con il corpo, una schermaglia d’amore, che comunica la trasparente allusione ad un gioco musicale in plastica evidenza, rivelante la capacità dei due interpreti di penetrare fra le pieghe della melodia, fino a cogliere le più intime ragioni del compositore con una sensibilità e attenzioni amorevoli, delizie di tocco e meravigliosa competenza. Finale tutto schubertiano con l’esecuzione della Grande Sonata op. 140 D. 812, che ha sigillato aureamente il concerto, datata 1838. Il duo si è avventurato con successo nelle inquiete evoluzioni tematiche del primo movimento, ed in particolare nell’irrequietezza dello Scherzo, una di quelle aperture di sipario che ogni volta sorprendono e ci fanno pensare che per certe pagine schubertiane l’unico aggettivo degno sia “miracoloso”. Non del tutto prevedibile, intenzionalmente sfogata negli eccessi strumentali e così sommessa sentimentalmente nelle ricercate accentuazioni e di ‘rubati’, è l’esecuzione della nostra formazione. È un’idea, quella di uno Schubert irrequieto più che salottiero, il suo repertorio a quattro mani, per quanto sublime, lo giustificherebbe, che domina questo imperioso finale. L’ immaginazione musicale in qualche passaggio ha corso più delle dita, ma l’effetto complessivo ha avuto quale caratteristica quella chiara levigatezza che è il profilo del magistero do di Michele Campanella. Anche durante il bis i due maestri non hanno smesso di compiacere il pubblico, eseguendo un brano di Schumann e sei dei diciotto “Liebeslieder Walzer” per coro e pianoforte a quattro mani di Johannes Brahms concepiti come un omaggio al valzer e al laendler austriaci. componimenti di penetrante fascino melodico e armonico e ricchi di crepuscolare tenerezza, pur nella piacevole festosità tipicamente viennese che li contraddistingue dal principio alla fine appartenenti ad una civiltà musicale di alto livello e che un tempo veniva assaporata e gustata in solitudine tra le pareti domestiche, in una beatificante pace spirituale, perché, come dice il Faust goethiano, «il mondo non è muto per chi sa intendere».