Lucciole: schiave di un mondo brutal - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

Lucciole: schiave di un mondo brutal

Lucciole: schiave di un mondo brutal

Si è chiusa con una pièce di Antonio Grimaldi la kermesse che ha inaugurato la nuova sala Pier Paolo Pasolini

 

Di OLGA CHIEFFI

Il primo febbraio 1975 Pier Paolo Pasolini pubblicava sul Corriere della Sera un articolo dal titolo “Il vuoto del potere in Italia”, ripreso in Scritti corsari divenne il famoso “articolo delle lucciole”, articulo mortis dei luminosi coleotteri. In quello scritto Pasolini affermava che le lucciole, rappresentanti l’innocenza in cerca di amore, erano scomparse soprattutto nell’accecante chiarore dei “feroci” riflettori: i fari delle torrette d’osservazione, degli spettacoli politici, degli stadi di calcio, delle platee televisive e aggiungiamo, della incredibile corsa a vetrine e vetrinette che globalizza e omologa il cosiddetto mondo della cultura.  Oggi la notte è buia pesta con “Le lucciole finite all’Inferno”, ivi condannate da un’umanità grigia, attanagliata dal nulla, incapace di provare meraviglia, emozione, amore, un’umanità che sta privandosi della propria libertà. La libertà è occasione e scelta. La sua concretezza sta nel suo essere insieme logica e patica, sempre progettante per quanto definita dal limite esistenziale. L’ iniziativa etica come sforzo di vita è rottura di ogni continuità e dipendenza, che non deve competere all’ esattezza del calcolo, ma al rigore del pensiero e al principio del “plurale” costitutivo della soggettività. Libertà, l’uscir fuori dalle categorie, il porsi continuamente in gioco è questo l’invito che è venuto dal finale della rassegna dedicata a Pier Paolo Pasolini, una serata introdotta da Gemma Criscuoli che, con una stringente disamina del teatro pasoliniano, attraverso il suo manifesto del 1968, in cui si oppone al “teatro della Chiacchiera”  cioè al teatro borghese, e contro il “teatro del Gesto o dell’Urlo” antiborghese, imboccando quella terza via, quello di un teatro ideale, che si rifà con candore neofitico alla tragedia greca, il “teatro della democrazia ateniese”, eclissando, così, l’intera tradizione del teatro borghese, ha gettato a volo d’uccello lo sguardo sulle sei opere maggiori del poeta, Calderòn, Pilade, Porcile, Orgia, Affabulazione e Bestia da stile, un teatro di parola, di poesia, di idee, ma anche un teatro di corpi, di passioni, e, soprattutto, di macerie. La ribalta è stata quindi di Pia Ansalone, Chiara Manzo, Elvira Buonocore, Cristina Milito Pagliara, Gemma De Cesare, Gabriella Orilia, Anna Rita Vitolo, protagoniste di “Lucciole all’inferno”, spettacolo con cui Antonio Grimaldi ha inteso omaggiare Pier Paolo Pasolini. Pasolini era uno che metteva in gioco corpo e pensiero nello stesso tempo, impossibile distinguerli nel suo modo di essere. Antonio Grimaldi ha proposto uno spettacolo ove l’idea e il corpo occupano lo stesso spazio, risultato di una lotta interiore. Lucciole nude evocanti l’innocenza del “Fiore delle mille e una notte”, “Porcile”, la camminata di Mamma Roma, sul palco delimitato da un gran tino su di un lato, e dall’icona di Silvana Mangano la Madonna nel Decameron. Donne offese, vendute, schiaffeggiate, stuprate, insozzate, velate, lapidate, i corpi parlano un linguaggio che in alcuni momenti ci ha ricordato il segno di Pina Bausch, il linguaggio della vita, la rappresentazione di stati d’animo ed emozioni che scandiscono la loro vita quotidiana, comunicati attraverso gesti non codificati che corrispondono ad una necessità interiore. La declamazione di Ploja tai cunfins, citazioni musicali spazianti dalla banale “Lucciole vagabonde” al medioevo sospetto dei Carmina Burana, con Veris Laeta Facies, usata in Salò e le 120 giornate di Sodoma, quale musica strumentalizzata dal fascismo e al contempo dal consumismo, sino a Moliendo Cafè, per sottolineare l’innocenza violata e perduta di questi angeli del maleamore, cresciuti e caduti ai bordi della società dell’apparenza dominata da quell’ordine costituito che non è solo un rifugio delle coscienze servili, ma è il luogo del peccato come stimolo individuale e collettivo, necessario alla fecondazione di un’umanità diminuita, impoverita, saccheggiata e lasciata alla deriva della propria mediocrità.