L'errore fatale di Cutolo - Le Cronache
Cronaca

L’errore fatale di Cutolo

L’errore fatale di Cutolo

di Raffaele Schiavone

L’ultimo magistrato ad averlo giudicato, è stato un giudice del tribunale di sorveglianza di Bologna, competente per territorio. <La sua uscita dal circuito carcerario sarebbe un accadimento eclatante sugli equilibri criminali in Campania>. Sì, proprio così: a quasi 80 anni, la stragrande dei quali trascorsi in carcere, completamente isolato dal mondo non solo in quanto sottoposto alle massime restrizioni previste dal 41bis ma anche per aver deciso, una decina di anni fa, di rinunciare a qualsiasi socialità compresa la cosiddetta ora d’aria, il nome Raffaele Cutolo <‘o professore> faceva ancora paura. Il timore del magistrato emiliano era che qualcuno, lo volesse o no Cutolo, per quel nome riprendesse a uccidere, a riorganizzare un clan, la Nco (Nuova Camorra Organizzata) che era stato capace di rivoluzionare gli assetti storici della criminalità in Campania, al punto (tanto per fare un esempio) di imporre una tangente ai contrabbandieri di Santa Lucia, storico quartiere di Napoli. E di costringere, tutti gli altri clan, ad associarsi tra loro per fronteggiarlo.

Arrestato a 22 anni per aver ucciso un molestatore della sorella, evaso dal manicomio criminale di Aversa, catturato nella primavera del ’79 e da quel giorno mai più uscito dal carcere (almeno ufficialmente), Cutolo ha messo insieme la bellezza di oltre 45 anni di carcere. Oltre 34 anni di reclusione li ha trascorsi in regime di massima sicurezza. Il 41bis, infatti, venne istituito alla fine del 1986, quando lui già da qualche anno era stato sottoposto a un regime di massima sicurezza. Eppure, nonostante tutto ciò e ridotto ormai fisicamente davvero male, Raffaele Cutolo, a detta di quel magistrato, faceva ancora paura.

Un terrore che il boss di Ottaviano aveva cominciato a incutere con la sua Nuova Camorra Organizzata, a metà degli anni Settanta, quando evase dal manicomio giudiziario di Aversa, aiutato da Vicenzo Casillo, detto ‘o nerone, suo braccio destro. Una fuga eclatante come fuori da ogni logica, è stato gran parte degli eventi che lo hanno visto protagonista. In carcere, fino a quel momento, aveva reclutato tra i detenuti i propri adepti, ad uno in particolare gli aveva anche garantito gli studi fino a farlo laureare in giurisprudenza. Una volta evaso, cominciò a tessere i fili con il Potere. Con quello criminale: si parlò all’epoca, di un suo viaggio negli Stati Uniti per ottenere l’investitura dalla nuova mafia italo americana, quella che si era alleata con i corleonesi ai quali era stato concesso l’ok per eliminare le vecchie famiglie palermitane e conquistare la Sicilia. Con quello politico: riuscì ad avere legami, si è sempre detto, con alcuni personaggi <di peso> in quel periodo. Cutolo amava raccontare, ad esempio, di quando venne fermato, da latitante, in Alta Italia da una pattuglia dei carabinieri. Portato in caserma venne trattenuto in stato di fermo per qualche ora: di fronte a lui c’era una sua foto con tanto di scritta <ricercato>. Eppure dopo qualche ora e una telefonata ricevuta dal comandante della stazione, venne rilasciato. Lo raccontò anche nel corso dell’interrogatorio al quale fu sottoposto nel processo contro la sua organizzazione, alla fine del ’79, pochi mesi dopo il suo ultimo arresto.

Un processo che richiamò, in un’angusta aula di Castelcapuano, giornalisti da tutt’Italia e anche dall’estero. Si arrivò a parlare di Cutolo e della Nuova Camorra Organizzata addirittura in Giappone. Il primo giorno di udienza, Cutolo, come del resto anche i suoi coimputati, si presentò elegantissimo indossando una sciarpa di seta che gli avvolgeva il collo. Come una star entrò in aula per ultimo e con notevole ritardo. Il tempo gli era occorso anche per farsi descrivere fisicamente, da un suo affiliato, tutti i giornalisti che erano presenti in aula abbinandoli ai nomi. Così quando salì dalla cella di sicurezza, li salutò educatamente tutti chiamandoli con il loro nome e rispettiva testata, dando loro del voi.

Quel processo passò alla storia per i tanti episodi che accaddero e per il potere criminale che Cutolo e la sua organizzazione mostrarono. L’aula era sempre stracolma. Ogni giorno, al termine dell’udienza, un adepto di Cutolo, addetto a seguire come un’ombra i giornalisti, relazionava i cronisti su quanto sarebbe avvenuto il giorno successivo. Sì, proprio come un efficiente addetto stampa. E così un giorno, fu annunciata per l’udienza successiva, una sorpresa. Puntuale, quella mattina, prima che i giudici entrassero in aula, arrivò un ragazzo di colore, al quale venne imposto non solo di salutare il Capo dei Capi ma anche di baciargli un anello che portava a un dito e consegnargli una medaglia d’oro. Il poveretto, ignaro di tutto quanto stesse accadendo, era un calciatore dell’Avellino, il brasiliano Juary, mito della torcida biancoverde (dopo ogni gol realizzato era solito danzare intorno alla bandierina del calcio d’angolo), il quale sarebbe poi approdato all’Inter. In quell’aula, Cutolo, oltre a impartire ordini ai propri affiliati, dava vita, durante le sospensioni delle udienze che spesso erano richieste se non imposte proprio da lui, con il suo solito beffardo mezzo sorrisetto e con una dialettica forbita e appropriata, a vere e proprie conferenze stampa nelle quali raccontava episodi che ai più sembravano più frutto della sua fantasia che legati a una realtà.

Il tempo, invece, avrebbe dimostrato il contrario. Come ad esempio, un suo intervento che riuscì a evitare una strage all’Olimpico di Roma, oppure la partecipazione di <strani personaggi>, non solo di terroristi delle Br, in via Fani, quando venne rapito lo statista Aldo Moro e trucidata la sua scorta. Fatti che la Storia ne ha confermato, in seguito, la veridicità ma sui quali si è preferito non indagare oltre. Nel frattempo la sua guerra agli altri clan costretti ad affiliarsi nella Nuova Famiglia, mieteva centinaia e centinaia di morti, alcuni anche eccellenti, mentre lui girava per le aule giudiziarie accumulando ergastoli su ergastoli. Ma tessendo anche altre alleanze, con alcuni esponenti della P2, del mondo economico, e con l’altrettanta potente banda capitolina della Magliana.

La fine di Raffaele Cutolo è cominciata quando i poteri forti gli chiesero un intervento nei confronti delle Br per ottenere la liberazione dell’assessore regionale Ciro Cirillo. Un documento-falso attribuito ai servizi segreti, fu fatto recapitare alla giornalista di un quotidiano che pubblicò l’intero contenuto: a notizie non vere s’incrociavano fatti realmente accaduti.  <Hanno fatto uccidere Moro e hanno salvato Cirillo> soleva ripetere Cutolo, al quale per ottenerne l’aiuto, vennero garantiti <favori> che poi, una volta venuto alla luce tutto il marcio, gli costarono caro: il trasferimento dal penitenziario per lui trasformato quasi in un hotel a cinque stelle di Ascoli Piceno all’esilio nel supercarcere di Asinara, l’uccisione del suo braccio destro Casillo, la fuga dall’organizzazione dei suoi affiliati conseguente anche alla maxioperazione contro la Nco scaturita dal pentimento di alcuni dei suoi più importanti adepti, il sequestro dei beni, tra i quali il famoso Castello di Ottaviano. E anche l’uccisione del figlio Roberto.

L’aver ordinato l’omicidio del potente boss milanese Turatello, fu il suo errore finale. Cercò, con quel massacro (una volta ucciso nel cortile del carcere a Turatello  venne strappato il cuore da uno dei suoi carnefici) di mandare un ultimo avvertimento ai poteri forti che a loro volta, invece, lo avevano già definitivamente mollato. Nonostante ciò, Cutolo non volle mai pentirsi e nemmeno tentare qualsiasi forma di collaborazione. Ha sempre sostenuto che se avesse deciso di parlare <sarebbe venuto giù l’intero Parlamento>. Chiese solo d’incontrarsi con un noto prelato, con il quale s’intrattenne a colloquio per alcune ore nel parlatorio di un penitenziario. Cosa si dissero, è rimasto un mistero, almeno per i comuni mortali. Intanto, inesorabilmente, gli anni sono trascorsi e gran parte di quei personaggi che Cutolo avrebbe potuto trascinare nello scandalo, sono morti. E così <‘o professore> di Ottaviano, decise di isolarsi dal mondo chiedendo solo di poter incontrare, una volta al mese, la moglie, Immacolata Iacone, e la loro figlia, nata grazie alla fecondazione assistita. Si narra che spesso lo si sentisse parlare da solo, un po’ come nel finale del famoso film sulla sua vita tratto dal romanzo scritto da Giuseppe Marrazzo, icona dell’informazione televisiva in quegli anni . Alla fine, ha portato nella tomba tutti i segreti di un periodo buio nella storia del nostro Paese.