Le ragioni estetiche di Paolo Pinamonti - Le Cronache
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Le ragioni estetiche di Paolo Pinamonti

Le ragioni estetiche di Paolo Pinamonti

Abbiamo incontrato il direttore artistico del Ravello Festival nell’intervallo dell’ottimo concerto dell’Orchestra del Teatro Carlo Felice di Genova, diretta da Wayne Marshall

Di LUCIA D’AGOSTINO

Se ogni volta al RavelloFestival si rinnova l’incanto dei concerti in uno dei luoghi più belli e suggestivi al mondo, il Belvedere di Villa Rufolo, è indubbio che quest’anno il cambio di registro, un programma che vuole proporre, nelle intenzioni della direzione artistica, alcune tra le migliori orchestre italiane, con un repertorio musicale che spazi dall’Ottocento al Novecento, facendo dialogare compositori dell’Italia e dell’Europa di quell’arco temporale, non ha ancora fatto breccia nel cuore del pubblico. Magari qualche considerazione in corso d’opera va fatta, un aggiustamento del tiro a livello strategico pure per il futuro è necessaria, ma a detta del direttore artistico, della sezione sinfonica e da camera (l’anima della rassegna di quest’anno per intendersi), Paolo Pinamonti, già direttore artistico del Teatro di San Carlo, essere partiti solo a febbraio scorso è una variabile dipendente da considerare, oltre al fatto che una comunicazione plasmata sul nuovo corso programmatico, mirata a coinvolgere il pubblico in un viaggio musicale inedito e ad accompagnarlo alla scoperta di un repertorio meno conosciuto, andrebbe definita meglio. Lo abbiamo incontrato in occasione del concerto dell’Orchestra del Teatro Carlo Felice di Genova diretta dal carismatico Wayne Marshall, anche pianista e organista inglese, alla sua seconda presenza a Ravello. Un graditissimo ritorno se è vero che molto del successo della serata è attribuibile al feeling che si è creato tra lui e l’orchestra, e tra questi e il pubblico non numerosissimo, nel corso di un programma partito dal Concerto dell’Albatro, il capolavoro di Giorgio Federico Ghedini e terminato con il Maurice Ravel de’ Le tombeau de Couperin e Ma mere l’Oye. E se la prima parte, solo apparentemente un po’ostica, all’ascolto iniziale, ha fatto scoprire, a quanti non lo conoscessero, i suoni affascinanti e intriganti di un compositore troppo poco familiare al grande pubblico (accompagnati dalla voce narrante di un brano, tratto da Moby Dick di Hermann Melville, di Luca Bizzarri un po’ fuori registro in verità), la leggera e incantevole melodia delle composizioni di Ravel ha raccolto il consenso incondizionato della platea.

Paolo Pinamonti, il RavelloFestival 2019 sta vivendo il passaggio dalla formula multidisciplinare e internazionale, per orchestre sinfoniche ospitate, valida e apprezzata fino alla scorsa edizione, e quella attuale con al centro del programma solo orchestre italiane. Una scelta che non tutti hanno gradito, soprattutto il pubblico affezionato ad un certo tipo di offerta culturale che d’improvviso è venuta meno. Come spiega il nuovo corso?

«Premesso che non si può, in ogni scelta, mettere sempre tutti d’accordo, io ho svolto una consulenza di direzione artistica su un progetto già delineato nelle sue intenzioni programmatiche da Mauro Felicori (commissario straordinario della Fondazione Ravello). Il Festival di questa edizione doveva essere una vetrina delle eccellenze italiane grazie a quello straordinario indotto turistico che è capace di generare un luogo come Ravello. Un’occasione per far conoscere agli stranieri le nostre eccellenze musicali tornando al significato originario del Festival, quello di rassegna di musica sinfonica, e attribuendogli un’identità progettuale importante capace di renderlo unico e riconoscibile».

Perché, secondo lei, l’identità di un Festival come quello di Ravello fino all’anno scorso non era sufficientemente riconoscibile?

«Certo che lo era, ma ormai i festival sono tutti un po’ omologati sulle grandi star, come i direttori e le orchestre da loro dirette, che girano ovunque con un repertorio già pronto. Io volevo che i programmi eseguiti qui non fossero già pronti, e, infatti, sono tutti stati commissionati sulla base di una unità e identità molto forti data dal confronto tra la tradizione sinfonica europea e quella italiana. Ho inteso mettere a confronto la tradizione musicale dell’Ottocento e del Novecento attraverso i suoi compositori italiani ed europei».

E perché scegliere solo orchestre italiane?

«Abbiamo fatto l’esperimento di presentare il meglio dell’offerta italiana con un repertorio che identificasse proprio la musica italiana. Quando io vado a un festival a Siviglia mi piace conoscere il prodotto della cultura musicale spagnola a cui, magari, posso accedere solo lì».

Ovviamente orchestre italiane che interpretino il repertorio al meglio, non solo perché sono italiane…

«Certo, e noi abbiamo scelto alcune grandi orchestre in modo da farle conoscere all’estero».

Il bilancio va fatto alla fine della rassegna, a livello di gradimento e partecipazione del pubblico, tuttavia i primi concerti non hanno fatto il pienone. Inoltre moltissimi affezionati all’offerta trasversale del Festival, con il jazz, la danza, hanno disertato l’edizione di quest’anno, cosa ne pena?

«Per quel che riguarda la partecipazione del pubblico credo che sia un fatto di comunicazione, Quando offri un prodotto di qualità culturale la comunicazione deve essere adeguata a livello qualitativo, deve passare appieno il messaggio e le intenzioni alla base di queste nuove scelte artistiche. Una riflessione andrà fatta sicuramente a fine festival, ma ora siamo all’inizio e non mi sembra che il bilancio di sei concerti sinfonici in venti giorni sia negativo. Quanto alla scelta di venire meno alla multidisciplinarietà del RavelloFestival non è mia, nel senso che io sono stato chiamato come responsabile della sezione sinfonica e da camera».