La scuola è morta e ora lo sappiamo - Le Cronache
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La scuola è morta e ora lo sappiamo

La scuola è morta e ora lo sappiamo

Rino Mele

A Piazza del Gesù, a Napoli, i bambini delle materne e gli scolari delle elementari e medie con le mamme (i padri difficilmente partecipano alla vita scolastica dei figli: non è una delega ma una resa) nei giorni scorsi hanno realizzato un’interessante protesta, riempiendo di fogli la base della settecentesca guglia dell’Immacolata: su quei fogli hanno scritto con parole semplici la loro difficoltà a continuare con questa scuola-nonscuola a distanza, fatta di difficoltà tecnologiche (in molte famiglie, insuperabili).
Non che la scuola – in tempi cosiddetti normali fosse migliore, ma adesso la strategia tecnologica ha svelato anche il vuoto di prima. I bambini, i ragazzini dovrebbero poter capire tutto, perché ne hanno l’intelligenza e la capacità, e invece la scuola li blocca in esercizi inutili e ripetitivi. Loro ne sanno più degli insegnanti, e lo si rileva dalla miriade di domande che vorrebbero porre, e a volte cercano (quel farsi domande è il vero sapere): e, invece, troppi adulti ottusamente pensano che sapere sia possedere risposte, spesso incerte, vaghe). In pochi anni, nel bambino quella sorgiva viene disseccata mentre diventa adolescente: allora a quel piccolo abitatore del deserto si dà un diploma. Ma, ormai, quel giovane uomo è diventato un simulacro di se stesso, imparando a star fermo nel banco, a non muoversi, a non parlare, a ripetere la noiosa e povera lezione dell’insegnante di passaggio, a fingere di ascoltare, fingere d’aver appreso, fingere di esistere. Sarebbe bastato insegnare a quei ragazzi, senza violenza, le poche cose necessarie, la matematica, la musica, la filosofia, la poesia e, soprattutto, la grammatica elementare, il significato del “noi” ad esempio, la differenza e il legame tra “io respiro” e “noi respiriamo”, “io mi nutro” e “noi ci nutriamo”, tra “io vivo” e “noi viviamo”: e come solo quest’ultima forma verbale (“noi viviamo”) permette l’altra. La prima persona plurale può essere sostituita dalla forma impersonale, che vale per tutti: noi viviamo diventa “si vive” (impersonale) e include anche “io vivo” che, preso da solo, non ha senso, è meschinamente povero. Tutto questo, un bambino può comprenderlo benissimo, con estrema facilità . Invece, la scuola esalta proprio l’io a scapito del “noi”: con i voti, la gerarchizzazione, la promozione e la bocciatura, preparando così il controllo dell’uomo sull’uomo: progetta l’orrendo disegno dell’immane onda degli schiavi e dei sottoproletari, membra scisse dal corpo dell’umanità.  Il programma, poi, andrebbe scritto alla fine, come risultato delle spinte e controspinte tra insegnante e alunni. Se davvero si vuol far scuola, e non continuare l’opposizione sterile tra il silenzio indotto negli alunni e l’insegnante che fa la sua lezione a una classe senza volto: ricordiamo tutti questa situazione disperante, e tra quelle spine, qualcuno ha perso l’anima. Quello che sto cercando di dire può scandalizzare, ma in qualche modo lo ha già detto l’iniziatore della cultura occidentale, Sant’Agostino, che nel 389 scrive il “De magistro”, un dialogo accecante per troppa luce. Il “De magistro” è un dialogo complesso e nella prima parte è una miniera di osservazioni linguistiche (preziose quelle sul rapporto tra parola e segno): “La parola scritta è un segno per gli occhi affinché la mente si ricordi di ciò che concerne l’udito”. Chiunque parla, dice Agostino, vuole insegnare, anche se fa solo una domanda (e i bambini ne fanno mille in un attimo): quindi gli scolari vogliono insegnare ciò che vogliono sapere. Proprio così. Quei ragazzini vogliono insegnare al loro maestro ciò che vogliono sapere e anche dirgli ciò che credono di sapere: “Per quale motivo poni domande, se non per insegnare ciò che vuoi, a colui che interroghi?” (ut eum quem interrogas doceas, quid velis). Nella sua semplicità è davvero rivoluzionario, e non può che essere il punto di partenza per una scuola nuova da cui vengano fuori cittadini nuovi, per una cultura sociale nuova e che non rimpasti ancora il pane già sfornato. Potrebbe essere l’inizio di una reale socializzazione in questa larga fascia d’età (più o meno corrispondente alla scuola materna, alle elementari e, in parte, alle medie): socializzazione che, più tardi non può essere più vissuta. Continuando a essere, generazione dopo generazione, sempre uguali, ripetendo in noi la stessa figura di un vile predace, che è l’uomo. Intanto, a settembre si torna in classe.
I banchi distanziati, gli alunni che entrano a gruppi (scordatevela quella bufera dell’ingresso, come la presa del castello), la mascherina che può essere tolta se interrogati, ma per i bambini delle materne non sarà obbligatoria. La distanza è di un metro, quando non si ha la mascherina, di due.