La metamorfosi di Minica - Le Cronache
Spettacolo e Cultura teatro

La metamorfosi di Minica

La metamorfosi di Minica

di Olga Chieffi

Riprende la programmazione questa sera, al teatro Ghirelli, alle ore 19 e domani alle 18, con La donna albero, una pièce liberamente ispirata ad un racconto di Andrea Camilleri, con Luca Iervolino, Antonella Romano e Rosario Sparno, che ne firma anche la regia e la riduzione. Il “cunto” è tratto da “ll casellante”, il secondo della trilogia di racconti Le metamorfosi, che si svolge durante la seconda guerra mondiale in Sicilia, schizzando una storia di profondo amore e dedizione. Tra favola e mito si sviluppa il racconto, che apre a sentimenti e dimensioni antiche e viscerali, al misterioso rapporto tra uomo e madre terra di cui la figura femminile si fa naturalmente tramite, in un percorso di trasformazione e integrazione. ll favolista e il mitografo della comunità vigatese, Camilleri, racconta di Minica e di suo marito, della loro modesta vita nella solitaria casetta gialla, accanto a un pozzo e a un ulivo saraceno: in un paesaggio arcigno, “blandito dal vicino mare e dalla luce”. Siamo nella terra sicula tra Vigata e Castelvetrano negli ultimi anni del fascismo. Lungo la linea ferroviaria che collega i paesi della costa fare il casellante è un privilegio non da poco: una casa, il pozzo, uno stipendio sicuro, ma la zona, alla vigilia dello sbarco alleato, si va animando di un via vai di militari e i fascisti, quasi presagendo la fine imminente, si fanno più sfrontati. A Nino Zarcuto, “trentino, beddro picciotto” è toccato un casello stretto tra la spiaggia e la linea ferrata. Si è sposato con Minica e aspettano, finalmente, un figlio. Il lavoro è poco, quindi c’è tempo per l’orto e per andare ogni tanto in paese dove Nino, appassionato di mandolino, può anche dilettarsi con l’amico Totò in qualche serenata improvvisata. Poi, una notte, mentre Nino è in carcere, colpevole di avere ridotto le canzoni fasciste a marce e mazurche con chitarra e mandolino, un evento sconvolgente travolge la vita di Minica: Minica viene aggredita e violentata, perde il bambino, la memoria, la ragione. Chi è stato? Uno dei militari di passaggio, o un amico che ha approfittato della sua assenza? Nino arriverà alla verità e alla vendetta, ma non riacquisterà la pace perché Minica ha perduto il senno. Vuole essere piantata come un albero, e come un albero generare: il suo corpo comincia a trasformarsi: i capelli in fronde leggere, le braccia verso il cielo come flessibili rami; il corpo si ricopre di corteccia; i piedi in radici. Ma siamo già nel luglio ´43, viene l´ora di utilizzare il rifugio, sbarcano gli americani, i bombardamenti si susseguono. È dalla devastazione che Minica, novella Dafne, troverà la forza e le risorse per ricominciare a vivere. Infatti, Nino porta Minica al sicuro in una grotta che ha scoperto e va ad aiutare i soccorritori. Quando sono tutti andati via, Nino cerca nelle carrozze di un treno deragliato qualcosa che potrebbe essere utile per Minica e sente come un miagolio. Ma non è un gattino, è un neonato. Nino lo prende, lo porta a casa, lo lava e lo veste, gli prepara anche un biberon con il latte di capra, poi però lo prende e lo porta a Minica. Il bimbo piange forte e nella grotta il suo pianto rimbomba amplificato. Minica si sveglia, si appoggia su un fianco e sorridente dice a Nino “Dunamillo ‘ccà” e gli dà il biberon. E per Nino il sole sorge in quel luogo e in quel momento. Ecco che la grande dea mediterranea ritorna e domina il mondo vegetale in epifania arborea, come è agevole vedere qui in Minica la visione mediterranea del “femminino eterno”, cioè della più segreta carne di donna, movendo da quella concezione irrazionale del mondo, da cui sorge il duplice fondamentale presupposto umano-vegetale, se ne ricava un’altra sua propria, in cui l’irrealtà suprema diventa per ciò stesso il mistico suggello della suprema realtà. E’ questa visione comune a Camilleri e noi tutti, capace di trasformare “to morion gynakeion” in un kepos (la grotta sotto il pozzo), dove una prima discreta penombra, già rotta da qualche vago bagliore, non è che il breve gaudioso vestibolo, da cui miracolosamente diverrà oasi di luce e di vita.