La Malanotte di 60 anni fa - Le Cronache
Attualità

La Malanotte di 60 anni fa

La Malanotte di 60 anni fa

di Massimiliano Amato

La televisione, che aveva inaugurato le trasmissioni solo a gennaio, mostrò all’Italia un panorama lunare. Non sfuggì a nessuno che macerie e devastazioni riproponevano, con la forza di immagini brutali nel loro straordinario realismo, i brividi e la maledizione di incubi ancora troppo recenti. Tra case sventrate, fango e detriti, si muovevano, simili a fantasmi, individui dai vestiti laceri e lo sguardo spento, donne scarmigliate coi bambini in braccio, anziani che erano riusciti a rialzarsi dalla tragedia di due guerre e adesso apparivano come spezzati dal peso della sciagura. Dal sudario di fango, una massa grigia che un dio malvagio aveva scagliato, furente, su via Roma spuntavano le ruote di una Giardinetta poggiata su di un fianco, un finestrino ancora aperto. Una bambola di pezza. I resti di una misera cucina economica. Le povere, eppur calde e dignitose, cucine del dopoguerra. La voce impostata, il tono accorato, lo speaker della Settimana Incom dipanava lento il filo dell’angoscia: “E’ stata una notte di ossessione e di terrore. Come un’immersione nell’inferno, con l’acqua al posto del fuoco”. L’acqua, elemento primigenio con cui Salerno e la Costiera avevano millenaria dimestichezza e che in una notte da tregenda aveva mostrato alla città il suo volto più carogna, traditore. L’acqua del Fusandola, gonfiato da 500 mm di pioggia caduti tra il pomeriggio di lunedì 25 ottobre e l’alba tragica di martedì 26, aveva travolto il cuore antico di Salerno. L’aveva investito in pieno, prima schiaffeggiando le vecchie mura delle case, poi sradicando tutto ciò che aveva incontrato lungo il tragitto. Perfino l’antica chiesa di San Michele a Canalone, il quartiere da dove era partita la corsa impazzita che si era biforcata, come deviata dalla mano della Vergine, all’altezza dell’Annunziata: un fiume di fango aveva preso la strada del Teatro Verdi, invadendo i giardini comunali e tracimando sul lungomare, un altro troncone aveva imboccato via di Porta Catena, portando morte e devastazione nel Decumano inferiore.

L’acqua del Bonea, che aveva spazzato via l’abitato di Molina, modificando per sempre la conformazione della Marina di Vietri. E quella del Reghinna Major, che dai Lattari si era abbattuta con furia inusitata sulla cieca presunzione degli uomini che ne avevano ostruito il corso. Allora come ora, come sempre: l’acqua si era ripresa quello che l’uomo, nella sua stolida smania di dominio sulla natura, le aveva sottratto, comprimendone lo spazio vitale.

Per l’Italietta agricola, centrista e cattolica apostolica romana, filoamericana, spaventata dall’orso sovietico e dai venti di guerra che avevano ripreso impetuosi a soffiare, con la paura di nuovi orrori sottopelle ma libera e spensierata nelle sue gonne a fiori, le calze di nylon e le prime giacche di tweed, quelle immagini rappresentavano, in fondo, un dejà vu e un avvertimento. Sembravano spuntare, quei fotogrammi, dalle telecamere dei soldati alleati, che dopo lo Sbarco, solo 11 anni prima, avevano immortalato le ferite della guerra e dei bombardamenti. E avvisavano i più ottimisti che la ripresa tanto sognata, invocata, agognata, preconizzata dagli economisti e dai cosiddetti “programmatori” alla Ezio Vanoni che proprio in quei mesi andava elaborando il suo celebre “Schema”, avrebbe avuto dei costi. Talvolta tremendi da sopportare. Si disse e si scrisse che il Fusandola aveva seminato terrore e morte (100 vittime in città) perché a monte, dove sgorga proveniente chissà da quale infernale anfratto tra Salerno e Cava (tributaria pur essa di una quarantina di morti all’alluvione), era stata realizzata una straordinaria opera di disboscamento, probabilmente per scopi edificatori.

La Penisola, terra tra le più antiche e sfruttate, si confermava friabile come i Pavesini, la cui pubblicità, introdotta dal faccione giocondo di un neonato, campeggiava sulle pagine di tutti i quotidiani dell’epoca. Solo tre anni prima, nel fatale 1951, c’erano stati il Polesine, 87 morti e 150mila senzatetto, e la Calabria, 72 morti e 10mila senzatetto. Ma l’analisi non rientrava nei compiti dell’anonimo speaker dalla voce impostata, che doveva commuovere, non far ragionare: “Il Reghinna Major, il Bonea, il Fusandola, Canalone, hanno spinto le vittime in mare, che verso sera, con il vento di libeccio, ha restituito i corpi”. Alla fine se ne sarebbero contati complessivamente 318: contribuivano a disegnare il perimetro di una delle più gravi catastrofi naturali della prima parte della storia repubblicana. I racconti dei sopravvissuti riempirono le cronache dei grandi inviati, tra i quali Alfonso Gatto, che su Epoca intonò struggenti e indimenticabili epinici alla sua terra martoriata e ferita a morte, mentre Gaetanino Afeltra trasmetteva ai lettori del Corriere l’angoscia per le sorti della sua adorata Amalfi.

L’alluvione aveva colpito duramente una città, Salerno, che non aveva nemmeno un sindaco regolarmente in carica. L’avvocato Francesco Alario, ex “sciarpa littoria” scampata alla Commissione per l’Epurazione, di rinnovata fede monarchica nel dopoguerra, nel 1952 era succeduto al collega Mario Parrilli, ma era stato dichiarato decaduto a maggio del 1953, in seguito al ricorso presentato da due consiglieri non eletti che avevano denunciato irregolarità alle amministrative dell’anno prima. Ad accogliere il Presidente del Consiglio (e ministro degli Interni) Mario Scelba a capo di un tripartito centrista Dc-Psdi-Pli con vicepresidente Peppino Saragat, e il ministro dei Lavori Pubblici Giuseppe Romita prontamente accorsi in città “a recare conforto ai feriti all’ospedale Ruggi d’Aragona e ai superstiti nelle zone colpite dalla sciagura”, scandiva solenne lo speaker della televisione di Stato, un commissario prefettizio. Il conte Lorenzo Salazar non abitava nemmeno a Salerno, e la notte dell’alluvione era stato tirato giù dal letto, prim’ancora che dalla telefonata istituzionale del prefetto, da quella del segretario generale del Comune, il commendator Alfonso Menna, il primo ad accorgersi che si stava scatenando l’inferno.In città arrivò anche, quattro giorni dopo la tragedia, il Capo dello Stato, un compunto e commosso Luigi Einaudi, ripreso dalla televisione mentre varca il portone del Municipio. E Claire Boothe Luce, l’ambasciatrice d’America impegnata in quegli anni, anche attraverso una feroce campagna anticomunista e antisocialista, a rafforzare i “solidi legami di solidarietà e fratellanza esistenti tra il popolo americano e quello italiano”. Dietro di lei, nelle immagini, la sagoma inconfondibile del Commendatore, ormai pronto a spiccare il grande salto. La malanotte era già alle spalle. Il futuro di Salerno, città della quale Guido Piovene avrebbe scritto un gran bene nel suo “Viaggio in Italia”, compiuto tra il 1953 e il 1956 (“Qui veramente cadono molti luoghi comuni sull’Italia meridionale. L’aspetto è infatti quasi settentrionale, e la pulizia quasi svizzera”), andava già delineandosi alle spalle dell’arcigna rappresentante del “Paese fratello”. Cominciava un’altra fase, che prendeva le mosse proprio dalla faglia, emotiva e politica, apertasi nella storia della città in quelle ore tragiche di pioggia torrenziale e terrore.