“In ginecologia ho vissuto un incubo” - Le Cronache
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“In ginecologia ho vissuto un incubo”

“In ginecologia ho vissuto un incubo”

di Brigida Vicinanza

“Mentre marito e figlia sono fuori mi prendo una pausa per me e metto su carta ciò che ha distrutto parte della mia vita”. Con una lettera, Francesca (nome inventato per rispettare la privacy), decide di tirare fuori tutto quello che è stato il suo ricovero al Ruggi in uno dei momenti più belli della vita di una donna: il parto. Che la situazione all’interno del reparto non sia delle migliori è oramai risaputo. Ma ci sono donne che con il tempo decidono di “denunciare” per far sì che altre donne, future mamme, non vivano gli stessi effetti e le stesse situazioni, affinchè qualcosa possa cambiare. “La mia storia comincia nel 2010, quando io e mio marito originari della provincia di Napoli decidiamo di venire a vivere a Salerno per il suo lavoro. E non so perché credevamo di trovare il meglio. Pochi mesi dopo il matrimonio, capisco di essere incinta. Convinta che un medico bisogna averlo vicino, trovo una ginecologa molto brava qui a Salerno. La gravidanza procede tra alti e bassi, fino al quarto mese quando scopro di avere un grosso mioma all’utero, ma nonostante le preoccupazioni la bambina cresce ed è sana. Dopo poche settimane, i primi problemi: dolori ovunque, addome e schiena. Mi reco al pronto soccorso con mio marito e il ginecologo di turno mi ride in faccia: io sono certa di avere delle contrazioni, lui è convinto che io non sappia cosa dico o meglio una alla prima gravidanza non può saperlo. Mi controlla l’utero e mi rimanda a casa con una compressa di spasmex. Sarà la notte più lunga della mia vita, col senno di poi capirò che avevo un travaglio in corso. Al mattino il dolore passa ma mi si rompono le acque, fuoriuscendo tutte. Corriamo in ospedale, la bambina è brachicardica e devo aspettare che il battito cessi per poi essere indotta e partorire. Due ore costretta a letto dal Personale, secondo il quale non dovevo assolutamente muovermi. Alle 22 decido di fare da me e chiedere una sedia a rotelle, ma il reparto di gravidanza a rischio non ne ha, chiedo di mandarla a cercare e non vogliono. I dolori intanto ripartono, devo partorire. Chiamo l’ostetrica dall’alto della sua “esperienza” non consentiranno il parto perché una che ha abortito “che ne può sapere, torna a letto ci vorrà tutta la notte”. Insito e capiscono che avevo ragione: tutto si fa veloce, medici e infermiere: litigano in ascensore, perché mancano delle firme, asserendo in dialetto: “E mò a chest addò a mettimm?”, continuano a litigare come se non ci fossi e urlano tutti, il medico, in sala operatoria. Ma in sala operatoria? Ma non dovrei essere in sala parto? La mente si attiva, vogliono fare un raschiamento e prendere e togliere la piccola. Avrei saputo dopo che l’avrebbero smembrata e tolta dal mio utero, pezzo dopo pezzo. Non ci sto, urlo, esigo un parto. Sento la bambina. L’ostetrica la prende e la mette in un barattolo. Sarà il tormento di tutta la mia vita. Sei mesi dopo ho dovuto togliere il mioma in un altro ospedale. Nel febbraio 2013, una seconda gravidanza. Stavolta procede senza problemi, vado avanti fino al parto. Un cesareo, il giorno prima ricovero, cartella e un letto. Riferisco cose di cui avrebbero dovuto tenere conto, nessuno legge la cartella. La mattina del 3 dicembre vago per i corridoi, nessuno mi chiama, nessuno mi dice nulla nonostante il mio parto programmato. Ancora una volta la saccenza del personale medico prevale: chiedo che mi venga inserito l’ago nel braccio sinistro, mi rispondono che le infermiere sono loro e mi chiedono di stare zitta, mentre il mio sangue schizza verso il soffitto. L’anestesista dice di procedere, la ginecologa taglia: dolore atroce, urlo e mi sedano del tutto. Mia figlia nasce sana e io non la vedo. Sto troppo male per la ferita. La bambina è al sesto piano al nido, io al primo in maternità. Dopo 24 ore chiedo di alzarmi, devo andare da mia figlia. Arriva una sedia a rotelle, l’unica per tutto il piano. Arrivo al nido e non vogliono darmela, insisto e ci riesco. Comincia poi la marcia dei pinguini: ogni 3 ore dal mattino alla sera, 2 reparti a piedi, 5 piani di ascensore e poi nido. Tutti hanno già mangiato o dormono e per questo molti non si attaccheranno mai al seno materno. Giorni di travolgimento totale: la corsa per salire al nido, pasti saltati, i cui orari si accavallano con l’orario di visita dei parenti, il Personale che si rifiuta di aiutarti a mettere la fascia post-parto. Giorni di solitudine immensa, pianti miei e di mia figlia, sto perdendo le forze. Lo so fare? Non lo so, ci provo. Mi rialzerò e ricadrò per mesi. Soffro ancora ma ci provo. Mi avete esaurita, ho fatto tante scelte sbagliate che credevo giuste. Ora sono di nuovo incinta, al settimo mese. Abbiamo deciso di scappare, andremo a Napoli. Scelgo io dove e con chi far nascere il mio piccolo. Stavolta non mi lascerò ingannare”.