Giuseppe Amato, l’ultimo Cavaliere - Le Cronache
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Giuseppe Amato, l’ultimo Cavaliere

Giuseppe Amato, l’ultimo Cavaliere

Ci ha definitivamente salutato. Nel dolore e nel rimpianto. Il Cavaliere, come tutti lo chiamavamo, diede l’impressione di farlo già nel 2011, quando cominciò a materializzarsi il fallimento dell’azienda. Lo incontrai per qualche minuto. Un uomo distrutto da un destino che nessuno avrebbe mai immaginato. Svuotato da ogni energia, eppure retto da una incrollabile dignità. Mi disse con un filo di voce, con un amaro sorriso sulle labbra e quasi a volere sdrammatizzare un immane disastro: “Poteva succedere a chiunque…”. Siamo stati insieme per 21 anni, da quando tra gli ’80 ed i ’90, mi chiama, da consulente, ad istituire ed a reggere l’Ufficio Studi dell’Associazione Industriali di Salerno. Sono gli anni del fulgore, della crescita, della delocalizzazione della sede degli industriali in via Madonna di Fatima. Sono anche gli anni della Fi.Sa, la Finanziaria Salernitana e della squadra di calcio delle cui sorti … dopo anni di precarietà, il Cavaliere vuole farsi carico. Ma senza successo, come sappiamo. Lui era fatto così. Si sentiva investito di una missione quasi divina, avvertiva un dovere superiore di prendere sulle spalle i destini avversi della città. Ma quelli sono anche gli anni di un incipiente, inarrestabile disfacimento del tessuto industriale campano, e salernitano in particolare. Dagli anni ’70, Salerno vede perdere pian piano i pezzi più importanti del suo prestigioso apparato industriale. Doveva essere la città industriale del Sud, come la sognava l’allora sindaco Alfonso Menna. Un destino, un disegno naufragato, e poi mai sostituito con un nuovo destino. Del Cavaliere mi sono rimasti impressi alcuni frames. Il primo è la grande foto che lui teneva all’ingresso del vecchio pastificio: ritraeva lo zio Antonio Amato, il fondatore del pastificio, che con il nipote Giuseppe accompagnano, in visita all’azienda, l’indimenticabile Aldo Fabrizi, uno dei grandi del cinema neorealista, il simbolo del buongusto italiano a tavola. Un po’ l’emblema dell’azienda. L’altro frame è un ricordo gestuale. Quello del Cavaliere che, mentre parla con me, con il figlio Antonio, e gli indimenticabili figli Mimmo e Gabriella, assaggia un piatto di spaghetti appena lessati portatigli dal direttore dello stabilimento. Come ogni giorno, secondi interminabili di suspense, in attesa del cenno di assenso che significava il via alla produzione della giornata. L’ultimo frame è vocale. E’ il racconto che il Cavaliere mi fece una volta per descrivermi come era nata l’azienda. Sono gli anni ’40 quando il capitano Rafter dell’Intelligence americana, a nome del Governo Alleato, conferisce ad Antonio Amato il compito di coordinare la distribuzione degli ingenti aiuti umanitari provenienti da oltreoceano. Sono soprattutto le tonnellate di grano che vengono sbarcate dalle navi alleate, alla fonda al largo nella rada di Salerno. Sono gli anni della sofferenza ma anche dell’inarrestabile ascesa. Una storia scandita dai successi. E dalle svolte. La prima nel 1951, quando Antonio Amato, con a fianco il nipote Giuseppe (che lui considerava il suo secondo figlio dopo la morte prematura del suo primo figlio) rileva il pastificio Rinaldo &C. Ne nasce la Rinaldo&Amato, laddove oggi c’è il corso Garibaldi che incrocia la salita di via SS. Martiri Salernitani. La seconda svolta nel 1958, quando nasce l’Antonio amato Molini & Pastifici, quella localizzata sul cavalcavia di Mercatello. E l’ascesa continua inarrestabile, perché sono gli anni delle nuove linee di produzione , gli spot con le star della televisione e del cinema, della “pasta con il nome e cognome”, della partnership con la Nazionale Italiana di calcio. Per 70 anni insomma, la storia del pastificio Amato e degli Amato è per Salerno, e si può dire per tutto il Sud, quello che era la Fiat per l’Italia. Un simbolo di cui andar fieri. Ed i simboli, caro Cavaliere, caro don Peppino, anche nei fallimenti non muoiono mai. Non possono morire. Così abbiamo vissuto tutti la tragedia del tracollo. Da increduli, come pugili sotto i colpi dell’avversario. Le prime difficoltà, forse la somma di tanti fattori negativi concomitanti, la crisi dei consumi, l’impennata del prezzo del frumento e, chissà, forse gli errori di chi gli stava vicino. Ed ultimo, quel maledetto spin-off immobiliare, quell’investimento che non si doveva fare, che forse lui non voleva fare, sbagliato, in un posto ed in un momento sbagliato. E tutto questo in un frangente in cui lui, l’ultimo Cavaliere, non era stato bene, assente per molto tempo dall’azienda. Forse, se fosse stato in sella, la crisi non l’avrebbe disarcionato. A noi non piace ricordarlo nella disgrazia, ma nel fulgore. Perché la storia che ha scritto, anche nelle sue pagine più grigie, sia ricordata come la storia di un grande. Di un grande che seppe di esser grande, senza mai ostentarsi grande. Imparino da lui, i falsi grandi di oggi . Aldo Primicerio