Giulio Scarpati: un “medico” a teatro - Le Cronache
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Giulio Scarpati: un “medico” a teatro

Giulio Scarpati: un “medico” a teatro

di Luca Ferrini

Nell’immaginario collettivo è il dottor Gabriele “Lele” Martini della fiction “Un Medico in Famiglia” ma Giulio Scarpati, che domenica sarà a Perito, ospite della serata finale del primo “Cilento Fest”, il festival del cinema dei borghi, è molto altro. Proviamo allora a conoscerlo meglio e lui inizia a raccontarsi a tutto tondo partendo proprio dal suo rapporto speciale con il Cilento. Vi trascorre abitualmente ogni anno almeno una parte delle sue vacanze, nella residenza di famiglia di Vallone Alto, tra Punta Licosa e Castellabate, e ricorda che da bambino, insieme ai suoi genitori e ai contadini del posto, amava dedicarsi ai mestieri della terra, dal vino al maiale, alle conserve di pomodoro.

Attore di teatro, Tv e cinema, in quali vesti si sente più a suo agio, quale il genere che le è più congeniale?

Ho iniziato a 12 anni con il teatro e ho frequentato una scuola di recitazione a 16 anni, pertanto possiamo dire che il teatro è stato il primo amore, la mia grande passione; poi è arrivato il cinema con delle belle opportunità, dei bei ruoli che mi hanno permesso di assaporare il fascino del grande schermo; da ultimo è comparsa la televisione, con varie fiction oltre a quella più importante del “Medico in famiglia”, che mi ha messo al cospetto di un modo tutto diverso di lavorare, forse più faticoso, con personaggi da conservare nel tempo, con la necessità di registrare tante scene in un giorno e una storia da raccontare in un grande arco temporale.

Nel teatro guarda molto ai geni russi, si pensi a “Storia di un Amore”, “L’Idiota”… Come sceglie i suoi personaggi?

Scelgo proprio i personaggi che mi piacciono come nel caso de “L’Idiota”. Ricordo che lessi il romanzo di Dostoevskij e proposi alla compianta Melina Balsamo, produttrice de “Gli Ipocriti” e con cui ho lavorato tanto, di scegliere insieme i personaggi mettendo su lo spettacolo con tanti attori e anche con un grande dispendio economico. David di Donatello per l’interpretazione di Rosario Livatino ne “Il giudice ragazzino”.

Quanto è stato impegnativo calarsi nei panni di un simbolo?

Innanzitutto, dovendo restituire la storia di un personaggio realmente esistito, i cui genitori erano ancora in vita, vi è stata la necessità di usare molta attenzione per non urtare la loro sensibilità. Ho parlato con molti magistrati che l’hanno conosciuto, ho letto diversi libri su Cosa Nostra e ho letto gli scritti di Livatino parlando con la sua professoressa che a sua volta aveva scritto vari libri su di lui. Ho conosciuto personalmente i genitori di Livatino e sono sempre rimasto in contatto con la famiglia. Tanto è stato il coinvolgimento in un racconto così doloroso che oggi, quando sento parlare in televisione di Rosario, mi giro come se la cosa riguardasse me.

Ha il timore di essere identificato con Lele de “Il Medico in Famiglia”?

Non è un timore ma una certezza quando 11-12 milioni di persone ti hanno visto in televisione; ma è anche la ragione per cui ho potuto fare delle scelte in teatro come quella de “L’idiota” che, se non avessi avuto la popolarità anche di medico, non mi avrebbe permesso di riempire i teatri per un testo di Dostoevskij che è una commedia non propriamente facile ma, al contrario, impegnativa. Quindi sicuramente non ci sono controindicazioni al successo che fa soltanto bene da tutti i punti di vista. Devi solo stare attento a tenere tu il timone del successo proponendo sempre qualcosa di diverso e di convincente.

Quali sono le esperienze del grande schermo a cui è più legato?

Sicuramente il “Giudice Ragazzino” è il film a cui sono più legato ma devo dire che un bellissimo film è anche quello su Pasolini, di Marco Tullio Giordana, “Un delitto Italiano”, dove interpretavo l’avvocato Marazzita che difendeva la famiglia Pasolini nel processo e che mi ha permesso di lavo-rare con Marco Tullio che è uno veramente preciso, maniacale, che conosce benissimo la storia ed è capace di darti tutte le dritte per interpretare al meglio il personaggio. Fondamentale poi per la mia crescita l’esperienza con Ettore Scola in “Mario, Maria e Mario”, un regista della vecchia generazione in cui si usava ancora la pellicola e non se ne poteva sprecare tanta, per cui era come se avesse tutto il film in testa e non c’era l’abitudine di fare parecchi tagli per poi sistemare tutto con il montaggio come si fa oggi.

Giulio Scarpati ha ancora un sogno da realizzare?

Penso che dopo tutto quello che ho ricevuto dal teatro, dal cinema e dalla televisione mi debba ritenere assolutamente soddisfatto. Soprattutto se penso a tanti miei colleghi bravi che fanno fatica ad affermarsi, credo che per me sia andata bene.