"E' la terra un'unica finestra", sogno e fragilità sotto lo stesso cielo - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

“E’ la terra un’unica finestra”, sogno e fragilità sotto lo stesso cielo

“E’ la terra un’unica finestra”, sogno e fragilità sotto lo stesso cielo

 

Secondo appuntamento per la stagione del teatro Diana con la intensa produzione del Teatro Garibaldi di Palermo, accolta purtroppo da circa una ventina di spettatori

Di GEMMA CRISCUOLI

Cosa si prova a non avere altro che sete e inquietudini? Franco Scaldati lo sapeva bene e chi vuole conoscere davvero la natura umana (“un’opera incompiuta”, come fa dire al suo personaggio) deve muoversi tra gli emarginati che abitano il suo mondo. Il Teatro Diana di Salerno ha proposto “E’la terra un’unica finestra”, lo spettacolo prodotto dal Teatro Garibaldi di Palermo e diretto da Matteo Bavera che costituisce una summa del percorso del drammaturgo siciliano. La violenta sensualità della lingua palermitana non lascia tregua: lo spettattore si trova immerso in un ritmo convulso che trascina e annulla il tempo, tra suoni carezzevoli e affilati. Diviene impossibile percepire la tenerezza e il calore senza sentirsi un attimo dopo precipitare in un’incertezza dolorosa di cui l’allegria fa subito scempio.  Melino Imparato seduce nella sua spiazzante capacità di dare forma a tutti gli aspetti del degrado e di quella che si potrebbe liquidare comodamente come follia, quando è folle chi pretende di avere tutte le risposte sulla mente e sui suoi inganni. Tragico e comico diventano parole vuote: tutta la sofferenza e tutta la caparbietà con cui ci si attacca alla vita recuperano nella performance di Imparato una forza che è sempre più raro vedere sui palcoscenici. Né gli è da meno Salvatore Pizzillo, che crea, con un’intensità che non si dimentica, un compagno di strada che è rifugio e alter ego, approccio fanciullesco alle cose e creatura sospesa tra il desiderio (la parrucca bionda che spinge l’amico a dichiarargli amore come ad Illuminata, cioè la luna) e l’ascolto di un notte che “si è ripresa i suoi fantasmi”. La narrazione procede per analogie emotive. L’impossibilità di recapitare una missiva al signor Pace introduce al turbamento che la propria ombra suscita in Imparato, scisso tra desiderio e ostilità (la scena è il luogo in cui gli opposti si perdono l’uno nell’altro). Come l’ombra avvolge la carne, così l’abbraccio di Pizzillo soccorre nel nulla dell’abbandono: non si dimentichi che lo squittire dei topi è l’unico suono che accompagna l’azione. Quando Imparato picchia sul pavimento ed è tormentato dal pensiero della guerra, sta cercando di ristabilire invano quell’afflato tra uomo e natura che i conflitti dissolvono. La buffa marcia accompagnata da declamazioni vuole esorcizzare ciò che di terribile ogni lotta porta con sé e poiché il teatro è contaminazione tra apparenza e presunta realtà, i due cercano “piccioli” per la loro esibizione; denaro gettato al vento, perché i corpi che sanno bastare a se stessi sono già a un passo dalla felicità. Una parrucca può servire per il gioco della riffa, così come un alcolizzato può essere vivo e morto nello stesso momento; una processione di santi può evocare le pulsioni dell’inconscio e chiedere a un cane di dare del lei all’uomo che segue può essere la più naturale delle richieste (ma uomini e animali sono e restano fratelli, lo hanno solo dimenticato). Al grado zero della logica e della gerarchia corrisponde una dolente consapevolezza della fragilità, un riconoscersi in pezzi lontano da un equilibrio sognato e rimpianto. La terra è davvero un’unica finestra che attende un’alba nuova e troppo lontana, mentre ormai “E’ buio…che pena..avremmo potuto fare tante cose”.