Don Pasquale e la melanconia del tempo che passa - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

Don Pasquale e la melanconia del tempo che passa

Don Pasquale e la melanconia del tempo che passa

 

Ritorna il bel canto al teatro Verdi con la raffinata e coinvolgente regia di Riccardo Canessa, unitamente alle videoproiezioni, ai costumi e alle scene di Alfredo Troisi. Il direttore d’orchestra Gennaro Cappabianca lancia la bacchetta su uno dei suoi secondi violini

 

Di OLGA CHIEFFI

Gags in palcoscenico e in buca, con lancio di fiori e bacchette, in questo Don Pasquale, divertente opera di Gaetano Donizetti, titolo atteso da almeno un decennio dal pubblico del teatro Verdi di Salerno e a giusta ragione. Opera realizzata meravigliosamente, in particolare dal regista Riccardo Canessa, il quale, in duo con lo scenografo e costumista Alfredo Troisi, l’ha ambientata in una Costiera Amalfitana degli anni’30, tra effluvi di limoni, limoncello, caffè, i colori delle maioliche compendiarie di Vietri, tra portasigarette a molla, svettanti aigrette, palloni di cuoio, collane di perle lunghe col nodo, gemme d’epoca di casa Canessa, elementi di una perfetta oggettistica di scena. Interni ed esterni su pedana girevole, per le due facciate di una costruzione evocante chiaramente Villa Cimbrone, hanno accolto gli interpreti, con prospettive videoproiettate di scorci che sono nel nostro sentire, spazianti da Ravello a Conca de’ Marini e un bluemoon per il duetto d’amore tra Norina ed Ernesto, ‘nterra ‘o mare della Divina. Tempi scenici sincronizzati al secondo, con tableaux vivants quale “fermo immagine” per i cambi scena ed un equilibrio tra comico e un “affettuoso” larmoyant, che solo l’esperienza teatrale delle diverse generazioni dei Canessa, ha permesso al nostro Riccardo di confezionare uno spettacolo piacevole e significativo. Donizetti legge il mondo di Don Pasquale, che prevede un’eleganza cinica e beffarda, di questo vecchio voglioso di moglie, gabbato dal nipote che vive presso di lui, dall’amico di casa, dalla fidanzata del nipote, a lui sgradita, che si traveste, e, in pochi giorni di finto matrimonio con il vecchio, gli fa vita d’inferno, fino a fargli desiderare il divorzio, nella pienezza luminosa della melodia, del ritmo e dell’armonia. Al tenorino attraente, Ernesto, ma che non lavora, come di solito i tenori nell’opera, dà frasi pompose e desolate, ma con un fascinoso dolore, che sono state elevate da Juan Francisco Gatell, buoni numeri nella sua voce, ma ancora verde per questo ruolo che prevede anche resistenza nel controllo, data la lunghezza delle arie, che ancora non possiede; alla vedovella Norina, a lui legata, che legge avventure amorose e cavalleresche e che è pronta a impersonare con tanta fantasia la parte della candidata ideale del vecchio, uscita fresca da un convento, dà innumerevoli spunti di comicità e di bellezza vocale. E’ sua la cabaletta “So’ anch’io la virtù magica”, aria di sortita affidata al soprano Rosa Feola, incantevole interprete per bravura vocale, leggiadria e intelligenza scenica, anche se ci ha negato il Si bemolle acuto di tradizione nel finale, scegliendo quello centrale in partitura. Don Pasquale, cui ha dato nuova vita Roberto Scandiuzzi, ha rivelato gli aspetti vitali dell’opera, quale attore perfetto, basso nobile che è sempre e comunque a caccia dell’eleganza e della qualità del timbro, unitamente al Dottor Malatesta, il baritono Sergio Vitale. A completare il cast il notaro di Luigi Cirillo. Poca musica, purtroppo, nella bacchetta di Gennaro Cappabianca, che tra l’altro riesce anche a far volare in dosso ai secondi violini, sotto il segno di un impietoso raggelamento, sottolineato da paludi di dilatata lentezza e di fortissimi che, in diverse occasioni, hanno completamente coperto le voci. Qualche entrata “libera” e tante discronie e discromie causate da fluttuazioni di ritmo e fraseggi tra gli strumentisti, in buca, i quali sono riusciti ad arrivare alla conclusione, grazie al loro decennale affiatamento, in particolare degli strumentini. Lodi per la prima tromba Raffaele Alfano, che ha indovinato suono e intenzioni del povero Ernesto e al primo violoncello, protagonista del solo nella sinfonia iniziale, unitamente al coro di Tiziana Carlini per il suo cameo “Che interminabile andirivieni”. Non dispiace se continuerà a percorrere questi binari il massimo cittadino, che essendo moderno e tradizionale ad un tempo, può fare molto per riaccostare all’opera lirica le generazioni più recenti.