Delitto Persico: nell'informativa i timori di una vendetta dei clan. Le motivazioni della sentenza - Le Cronache
Cronaca

Delitto Persico: nell’informativa i timori di una vendetta dei clan. Le motivazioni della sentenza

Delitto Persico: nell’informativa i timori di una vendetta dei clan. Le motivazioni della sentenza
Per i giudici della Corte d’Assise d’Appello non si sono dubbi sul delitto di Vincenzo Persico detto “Coca Cola”: fu omicidio volontario. E’ uno degli aspetti che il collegio giudicante (presidente Rodolfo Daniele) rimarca nelle quasi quaranta pagine di motivazioni.  Da rilevare che i legali difensori degli imputati Volpicelli, Di Lucia e Lamberti aveva chiesto la derubricazione da omicidio volontario a omicidio preterintenzionale. Nella sostanza gli accusati non negano di aver commesso il fatto delittuoso ma sostengono che “volevano soltanto dare una lezione a Persico sostenendo che la volontà “di non uccidere emergerebbe dalle ferite d’arma da fuoco localizzate solo nella parte bassa del corpo della vittima”. Ipotesi che i giudici escludono sia per le dinamiche dell’agguato (i cinque i colpi esplosi da Volpicelli) che per le risultanze dell’esame autoptico con il professore Strada che rileva che “alcuno dei colpi andati a segno ha attinto le gambe, mentre il colpo letale, ovvero quello al torace, ha avuto una inclinazione, suppur leggera, dal basso verso l’alto”. Conferme arrivano anche dalla “micidialità” dell’arma (una calibro 9×21 modello GT21 con caricatore estraibile a 16 colpi) consegnata da Lamberti detto “Mimmo ‘a mafia”. A sostegno dell’ipotesi dell’omicidio volontario viene sottolineata “la reteirazione dei colpi in due segmenti della condotta di sparo (sia vicino al chiosco che verso il curvono vicino alla chiesa).
Concorso anomalo. E’ l’ipotesi prospettata nel ricorso dei legali Di Lucia, Brunetto e Lamberti. In particolare De Lucia sostiene che la decisione di uccidere la vittima fosse “stata assunta in maniera improvvisa dal Volpicelli”. Lamberti ha sempre ribadito che non poteva prevedere un simile epilogo mentre Brunetto ha sempre sostenuto di aver fornito soltanto la base logistica. Tesi che è stata respinta dai giudici per i quali il reato diverso da quello concordato inizialmente deve “essere atipico, dovuto a circostanza eccezionali e del tutto imprevedibili”. A riguardo risultano “illuminanti” le dichiarazioni a sfondo collaborativo rilasciate dal Brunetto in relazione alle inequivoche espressioni utilizzate da Di Lucia e Volpicelli (“mo lo dobbiamo andare a fare”). Inoltre Brunetto ha utilizzato l’espressione “progetto omicidiario”. Per i giudici della Corte d’Assise d’Appello non è ipotizzabile neanche la tesi che “il Lamberti nel momento in cui sostanzialmente “autorizzava” l’azione criminosa non l’avesse condivisa in tutti i suoi aspetti”. A tal riguardo Volpicelli avrebbe fornito elementi precisi nel corso di un colloquio telefonico a Lamberti come evidenziato da Brunetto.
Attenuante della provocazione. Anche questa ipotesi è stata esclusa dai giudici in quanto il delitto “avrebbe come causa remota la volontà nel primeggiare nel mercato degli stupefacenti”. Nella sostanza gli schiaffi dati da Persico a Volpicelli “hanno rappresentato solo un pretesto per reagire e riaffermare la loro leadership sul territorio”.
Volpicelli era capace di intendere. I legali del killer, nell’impugnare la sentenza, avevano chiesto la seminfermità mentale dell’imputato. Veniva sottolineato che la capacità di intendere di Volpicelli era scemata per l’uso prolungato e sfrenato di sostanze stupefacenti”. A tal riguarda viene richiamata l’esame del perito (Tito De Marinis) nominato dal Gup: “Lo pschismo dell’indagato, sicuramente condizionato dall’uso di sostanze tossiche, al tempo del commesso reato non era tale da influenzare o determinare a cambiamenti del suo stato di coscienza”.
Le altre tesi difensive. Brunetto aveva evocato lo stato di necessità. In poche parole l’imputato ha rimarcato di essere stato costretto a custodire l’arma per salvare se stesso dal pericolo attuale e grave che i due correi avrebbero potuto procurargli. Tesi che non è stata ritenuta attendibile dai giudici.
Metodo mafioso. La Corte ritiene che il delitto posto in essere sia “paradigmatico del metodo mafioso. A tal riguardo vengono richiamate le modalità eclatanti ed allarmanti in relazione all’esecuzione del delitto (in pieno giorno e nel centro cittadino) tra l’altro in reazione degli schiaffi che Volpicelli aveva incassato da Persico in presenza di terza persone.
I carabinieri temono reazioni da Salerno.  Nell’informativa i carabinieri esprimono timori che il delitto possa scatenare una vendetta ad opera della camorre del capoluogo (il papà della vittima, Ciro Persico, era affilliato al clan Panella-D’Agostino).

I timori di Persico. Tra l’altro lo stesso Vincenzo Persico aveva rilevato al titolare del chiosco di Montecorvino la volontà di parlare con chi deteneva le redini malavitose a Montecorvino Rovella “per impedire, anche con la forza, che questi continuassero a vendere droga per non attirare l’attenzione delle forze di Polizia in quanto quest’ultime avrebbero potuto immaginare che fosse lui a portare la droga da Salerno”. La Corte ha sostanzialmente confermato l’impianto della sentenza di primo grado. I legali nei prossimi giorni depositeranno ricorso in Cassazione.