De Filippo e Salerno, il ricordo di Mario Pantaleone - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

De Filippo e Salerno, il ricordo di Mario Pantaleone

De Filippo e Salerno, il ricordo di Mario Pantaleone

di Olga Chieffi Di Eduardo De Filippo è stato detto tutto. E’ stata definito il più grande autore italiano dopo Pirandello, un mostro sacro, un mito. Incarna un simbolo complesso, misterioso ed intoccabile, colui che alzava con quel sopracciglio, dall’arco nobile e crucciato, il peso del dolore del nostro Sud. A trent’ anni dalla scomparsa, affossato da certa critica quale drammaturgo, tacciato di pirandellismo, addirittura di “eduardismo”, ma tutti d’accordo sull’attore, insuperabile, che accresce quel dubbio ogni qualvolta lo si ascolta, lo si vede, lo si immagina che le sue opere possano essere portate in scena unicamente da lui. “Sono eduardiano da sempre – racconta Mario Pantaleone – l’ho seguito nel suo San Ferdinando, a Roma, e anche qui a Salerno dove è venuto con la sua compagnia diverse volte. Il Verdi era teatro di provincia, tutte le massime compagnie venivano a saggiare il pubblico qui e, a cavaliere tra gli anni ’60 e ’70, ci fu una sua cinque giorni, tutte commedie diverse, un’ultima replica con “Sabato, domenica e lunedì”, quindi, una serata di poesie. Ebbene l’essenza autentica del teatro vive solo delle parole pronunciate, nel momento in cui sono pronunciate su di una ribalta: dei gesti che, in quel momento si stagliano in quella luce. C’era qualcosa di febbrile in quell’accorrere e in quel raccogliersi davanti alla ribalta per Eduardo e insieme qualcosa di religioso, perché quelle adunate di folla assumevano, nell’attesa che il sipario si levasse un aspetto rituale. E l’attesa durante i primi momenti dello spettacolo, mentre gli altri attori recitavano, che egli entrasse in scena. Vecchio e illustre trucco, questo del protagonista che compare solo dopo che l’azione è cominciata da un po’, ma ha già steso le sue reti per catturare l’attenzione, magari da dietro le quinte, con un colpo di tosse, da un raschio di gola, da una battuta smozzicata, da una risatella livida. Diverse volte ho avuto il piacere di vedermi arrivare in pasticceria i Maggio, Rosalia, Pupella, che ricordavano mio padre Alfonso, regalare loro il paccotto di dolci quando venivano da giovinette a recitare all’arena Italia. Una volta chiesi a Pupella: “Ma “Il capo”, in confidenza, com’è?” “Bhè – rispose Pupella – è come lo descrivono, schivo, tanto da sembrare scostante, in 27 anni di lavoro fisso con lui non mi ha mai chiesto come stessi, dei figli, una parola affettuosa. Lui aveva il camerino n°1, io il 2 naturalmente, quello riservato alla protagonista, ogni sera, “Stai ‘lloco”, ovvero ci sei, quindi reciti. E’ come il padre di famiglia ha ragione anche quando ha torto.”. Su queste parole di Pupella, una colonna assoluta della compagnia di Eduardo, da cui sono partiti anche diversi giovani quali i Giuffrè e i nostri Franco Angrisano e Regina Senatore, gruppo in cui mai nessuno poteva essere sicuro di essere richiamato l’anno successivo, il pensiero va a questo 2014, anno celebrativo non solo del drammaturgo Eduardo, ma anche del compositore band leader Duke Ellington., di cui ricorre il quarantennale dalla scomparsa. Diverse volte il pensiero va al loro modo di scrivere: Eduardo pensava i personaggi per i suoi attori, per se stesso, per la sorella Titina, per Peppino, Da “Natale in casa Cupiello” a Napoli Milionaria, da “Filumena Marturano” a “Questi fantasmi”, in cui quei silenzi modernissimi e memorabili, che lo fanno diventare un grande attore muto, della migliore tradizione, quella purezza inventiva geniale con cui ha attualizzato la classicità popolare nei suoi lavori sembra veramente possa essere unicamente realizzata da lui e dai suoi attori. Lo stesso dubbio ci attanaglia quando ascoltiamo l’orchestra ellingtoniana nella formazione stellare degli anni ’40. E’ musica di Duke Ellington, certo, ma al tempo stesso è la musica di ogni singolo membro dell’orchestra. E’ questo il segreto del celebrato “Effetto Ellington”: il clarinetto di Barney Bigard, con l’imboccatura a New Orleans e la campana a rivolta verso ogni novità, il sax baritono di Harry Carney, al quale si ancorava l’intera orchestra, indimenticabile in Sophisticated Lady e Solitude, Ray Nance, gioiosa e solare la sua tromba, Cootie Williams, il re della tromba sia aperta che sordinata, che ebbe in dono il meraviglioso Concerto For Cootie, Juan Tizol, il portoricano, lo stesso spirito esotico che ha ispirato l’effigie delle sigarette Camel entra con lui nell’orchestra, dal suo trombone sono uscite “Conghe” e “Carovane”, Jimmy Blanton, il progenitore del contrabbasso moderno, ha accompagnato la band con incomparabile fantasia, ma a quattr’occhi col Duca ha registrato toccanti capolavori quali il terzo tempo della Perfume Suite, Dancers in Love, Bubber Miley, la tromba della jungla, con le sordine riusciva ad evocare gli animali selvaggi, facendo fremere i clienti del Cotton Club, “Tricky Sam” Nanton, l’altra metà del superbo tandem con Bubber Miley, il trombone con sordina era in lui quasi un’appendice della voce umana, Rex Stewart, anche il suo strumento parlava, è stato il primo a suonare la tromba fermando i pistoni a mezza corsa, gli invidiati tenor-sax ducali, Ben Webster e Paul Gonsalves, capaci di vigorosi e sanguigni assoli. Ma su tutti regnava il sax alto di Johnny Hodges, The Rabbit. Le sue improvvisazioni erano il pezzo forte dello spettacolo, impossibile dimenticare i suoi glissando da vertigini in Prelude to a Kiss. “Il tema è di Strayorn (l’alter ego di Ellington, l’ombra china sulle parti a cavar fuori i più incantevoli frutti dell’orchestra) – diceva Johnny -,l’ha scritto per me. Ma quei passaggi li ho inventati io. Anzi li ho brevettati!”. Poi, si rabbrividisce a poter solo pensare una asineria del genere, poiché il linguaggio del teatro e della musica sono universali di per loro ed Eduardo ed Ellington non inventano l’arte poiché sono loro stessi arte. La musica di Ellington e il teatro di Eduardo hanno un segreto in comune, l’opera del primo è intarsiata di incantate miniature, ma è attraversata da due metafore , un luogo e un viaggio, quella del secondo è fatta di riso, pianto, tamurriate in sordina, saggezza, ma tracciano insieme un itinerario verso il silenzio, un silenzio vivo, misterioso, corso da note e parole innumerevoli che se ne staccano mute, come le foglie da un albero.