Daniel Oren e la benedizione di Aronne - Le Cronache
Spettacolo e Cultura

Daniel Oren e la benedizione di Aronne

Daniel Oren e la benedizione di Aronne

 

Presentata ieri mattina a palazzo di città l’Aida, opera che chiuderà la stagione lirica. Questa sera, alle ore 21, la prima con Daniel Oren sul podio per la regia di Riccardo Canessa

Di OLGA CHIEFFI

 La benedizione di Aronne è caduta su Daniel Oren per mano di papa Francesco, nel corso della giornata e del concerto per i poveri e i pellegrini che il nostro direttore artistico e l’Orchestra Filarmonica “G.Verdi” ha offerto nella sala Nervi, in Vaticano. Una benedizione che ha portato alla riconferma del sacerdote del massimo cittadino anche per il 2016, annunciata dal Sindaco Enzo Napoli e dal suo assessore Ermanno Guerra, i quali hanno deliberato anche per la stagione lirica 2017 che oltre a Samson et Dalila, Madame Butterfly, Nabucco, Cavalleria Rusticana e Pagliacci, godrà di un’apertura molto particolare. Di Aida che andrà in scena questa sera, alle ore 21, con repliche nella giornata di Santo Stefano e il 28 dicembre, si è parlato veramente poco. Da qualche foto “rubata”, abbiamo intuito che quella scena completamente bianca, atta a dar risalto ai ricchi costumi e ai caratteri degli interpreti e a sottolineare le luci, nella una lettura particolare che fu di Riccardo Canessa nel 2012, la ritroveremo, in pratica in toto, poiché il regista ha inteso usare le scene e i costumi di tre anni fa, secondo la linea scelta dallo stesso Daniel Oren, musicale e quindi registica, così come le coreografie per il trionfo saranno di Pina Testa, cucite addosso all’ètolile Giuseppe Picone. Cast completamente diverso da quello precedente, con tutte stelle, a cominciare da Hui-He, la quale impersonerà Aida. Di fronte a lei ci sarà Giovanna Casolla nel ruolo di Amneris. Doppio ruolo per Radamès, Gustavo Porta per questa sera e Piero Giuliacci per le altre due repliche e anche per Ramfis, con i giovani Giorgio Giuseppini e Romano Dal Zovo. A completare il cast l’Amonastro di Claudio Sgura, il Re D’Egitto di Angelo Nardinocchi, il messaggero di Francesco Pittari e la giovane voce tutta salernitana di Nunzia De Falco, nelle vesti della grande Sacerdotessa, tutti sostenuti dalla Filarmonica Salernitana, diretta da Daniel Oren e dal coro affidato a Tiziana Carlini. E’, questo, il terz’ultimo titolo di una rigogliosa galleria di opere che hanno percorso nell’Ottocento ogni possibile tappa dell’avventura italiana nel genere che viene, per giudizio unanime, reputata l’ultimo omaggio di Verdi all’antica formula melodrammatica, sia pur impreziosita da aliti di maliosa estraneità. Si tratta, infatti, di una partitura ancora proiettata verso la sensibilità di chi dall’opera in musica si attende fervore melodico, grandi numeri d’insieme e, perché no, pezzi chiusi di quelli che muovevano all’entusiasmo le vecchie popolazioni teatrali; pure, qualcosa è sottilmente mutato in tale quadro e non è difficile percepirlo all’ascolto. Verdi ha ormai fatto tesoro di quanto della vicenda musicale europea si è infiltrato nel proprio habitus mentale; l’attenzione all’esotismo e ai colori timbrici che ne discendono non è invenzione di poco conto e rinviano ad un preciso referente, quello dell’opera francese. Finezza del dettato, tendenza ad abbandonare la univocità di pronuncia del passato, non più asseverazioni di forte tinta, bensì ambiguità, respiri malinconici, innesti di umor galante e personaggi non più manichei, eroismo e bene da una parte e cattiveria dall’altra, ma figure umane screziate dal misterioso soffio dell’ipotetico. Aida conferma tale nuovo spirito e s’inoltra sulla via di un periglioso “lasciarsi esistere”, invece che su quella di “guidare”. Quel che, però, in Aida reca il sigillo della novità è altro, l’assunzione della luce del timbro a propellente della drammaturgia. Il che consente di fissare l’empito dell’azione, questo referente di somma importanza nell’operismo verdiano, negli indugi della rappresentazione, primo vero segnale di estetismo nella produzione di un autore che era parso in passato votato all’eroico e all’epico, costi quel che costi. Si pensi, ad esempio, alla funzione non solo ornamentale ma di molla psicologica che oboe e flauti rivestono nell’episodio della seduzione dell’atto del Nilo, con i voluttuosi glissando dei tre flauti su di una successione di terze e seste o nel ruolo non più equivocabile di quel flauto che girovaga nella conclusiva scena della tomba a rammentare trascorse bellezze per immolarle nell’ultima scena. Verdi ha davvero inventato in Aida un universo in cui tutti hanno perso la loro casa e il diritto di esistere e si nutrono solo di sogni e utopie: un’Etiopia quale bel suol d’amore, insomma. Ecco perché le melodie dell’opera hanno sempre un che di museale, come fossero stagliate su di un bassorilievo, costringendo talora chi l’ascolta all’alea della monotonia; e rimane la sensazione di qualcosa di stucchevole, come nella pur esaltata bellezza della catarsi finale.