Antonio Monizzi e il fumettista Zerocalcare - Le Cronache
Attualità

Antonio Monizzi e il fumettista Zerocalcare

Antonio Monizzi e il fumettista Zerocalcare

Di Andrea Orza

 La nuova uscita “Strappare lungo i bordi” del fumettista Zerocalcare ha attirato le attenzioni del pubblico italiano. Antonio Monizzi, studioso di storytelling e di tutto ciò che è narrazione, illustra l’importanza della memoria collettiva sottolineata dal fumettista e propone una soluzione che metta al riparo dall’appiattimento retorico della conversazione. Come insegnare alle nuove generazioni che è solo nel dare che si riceve?

 L’ultima esperienza d’intrattenimento italiano è stata la serie animata “Strappare lungo i bordi” ideata dal fumettista Zerocalcare. Quali considerazioni sul suo stile comunicativo?

“Per cominciare metto in rilievo gli aspetti di risonanza con il personaggio di Zerocalcare. Il suo sentire rispecchia quella generazione che non ha imparato ad essere pienamente soddisfatta di qualsiasi cosa si faccia. Essendo un periodo di mezzo, si vivevano gli echi dell’ardore rivoluzionario del ’68 e si manifestavano stili di vita variegati, dagli yuppies figli del boom economico ai punk dissoluti e violenti. Lo stile autobiografico del fumettista rivela proprio quella docilità di carattere che si esprime tramite la battuta pronta e cinica. Così molti dei miei coetanei si sono trovati ad essere “quinto Dan di scansalavita” e a strappare con prudenza lungo i bordi. Indecisione e vulnerabilità sono i tratti distintivi del profilo storico collettivo. La figura dell’Armadillo, animata dall’inconfondibile voce di Valerio Mastrandrea, corrisponde simbolicamente all’Ego conflittuale e pretenzioso che trattiene fino alla chiusura comunicativa verso l’altro. Un altro aspetto peculiare del pensiero di quegli anni era il bisogno di ricercare, di identificarsi ma comunque di restare liberi ad una prossima metamorfosi senza trovare punti fermi. “Strappare lungo i bordi” è una serie che celebra la vita “vera” e disillusa, sul finale non banca il brivido della gioventù romanesca che tenta di autoeducarsi al doloroso urto della quotidianità.”

 

 

Il social network apre la visione del singolo a nuovi orizzonti. In che modo si può recuperare l’impronta locale e urbana nel racconto di sé?

 

“Confesso il mio entusiasmo per i social network in tutte le sue forme. Resto deluso però, dall’incapacità di farne buon uso. L’aspirazione che ho verso l’arte dello storytelling è quella di aprire al confronto. Quello che conta in una conversazione, reale o virtuale è capire dove si vuole arrivare. In questo modo, il dialogo è un viaggio la cui potenza incantatrice può trasportare oltre i confini della routine. La continuità mediatica tra le persone ha concesso di essere sempre presenti ma nella sintesi del post si perde il sentire spontaneo della dimensione urbana. Posto che i Social network siano dei luoghi viene da sé che la popolazione si trovi in circostanze sempre nuove, ma ci sono delle abilità che devono essere apprese se non si vuole cadere nell’omologazione dell’Algoritmo. In effetti, la lotteria algoritmica non sempre permette il confronto con chi è troppo diverso da noi. Questo mi fa pensare alla questione dei no Vax e al commento di una mia amica che nel solito litigio a chi ha più ragione scrive “anche se abbiamo un’idea diversa non significa che dobbiamo odiarci”. L’odio anarchico e implacabile viene mitigato dall’apertura alle diversità, incontrandosi a metà strada. I più giovani, disabituati al mercato urbano delle opinioni spesso evitano addirittura di dire quello che pensano, prendendo in prestito citazioni di qualcun altro. Solo un’educazione al racconto di sé potrà salvare le vecchie e nuove generazioni dal vuoto interiore che annichilisce e sbriciola la trama personale disperdendola per sempre.”