A che serve una nuova storia letteraria - Le Cronache
Editoriale

A che serve una nuova storia letteraria

A che serve una nuova storia letteraria

 

Di Federico Sanguineti

Di storie letterarie ce ne sono. C’è solo l’imbarazzo della scelta: in un mondo ormai globalizzato vien da chiedersi a che cosa può servire la manualistica tradizionale, oppure il libro che per consuetudine si studia a scuola: “Studiate, studiate, studiate, sarete mediocri”, insisteva Tommaseo nel 1838. Non sarebbe meglio leggere, cioè accedere a una ricca biblioteca, piuttosto che accontentarsi di un accumulo di nozioni? Se poi si vogliono informazioni di base, benissimo: su Wikipedia oggi si trova, bell’e pronta, una voce come Storia della letteratura. Consultandola, è possibile scoprire che la produzione letteraria si è sviluppata in modi e tempi differenti in ogni angolo del pianeta; si apprende cioè che esiste una Geografia e storia della letteratura, sotto la cui etichetta (evocante un libro di Carlo Dionisotti del 1967) si spalanca un mondo infinito e, in ordine alfabetico, si para davanti agli occhi, prima fra tutte, la Letteratura accadica, cioè la letteratura assiro-babilonese, con i suoi capolavori, fra cui, relativamente recente (ottavo secolo prima dell’era volgare), l’Epopea di Gilgameš. A seguire, restando alla lettera A, Letteratura afghana, Letteratura africana, Letteratura afroamericana, Letteratura albanese, Letteratura amarica (quella, com’è noto, scritta nella più diffusa delle lingue semitiche dell’Etiopia), Letteratura americana, Letteratura anglosassone, Letteratura angolana, Letteratura araba, Letteratura argentina, Letteratura armena, Letteratura assamese: quest’ultima scritta, si sa, in una delle lingue parlate in India. Grazie allo sviluppo borghese, scrivevano Marx ed Engels nel lontano 1848, “i prodotti spirituali delle singole nazioni diventano patrimonio comune. La unilateralità e la ristrettezza nazionale diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali esce una letteratura mondiale”. Ma in Italia, dove la letteratura italiana non è mai stata popolare (problema sollevato da Ruggiero Bonghi nel 1856), la letteratura a che serve, se istituzionalmente l’invito è a coltivare l’ignoranza, al punto che una sottosegretaria alla cultura si vanta di non leggere libri o, peggio ancora, un sottosegretario all’istruzione, nel settimo centenario della morte di Dante, impunemente attribuisce al Poeta (distico di settenari a rima baciata): “Chi si ferma è perduto / mille anni ogni minuto”? In sintonia con il processo di globalizzazione capitalistica, si è burocratizzata ogni attività formativa, favorendo, a livello scolastico e universitario, la reificazione del sapere. L’obiettivo di chi dovrebbe favorire la ricerca si riduce a compiacere gerarchicamente apparati dediti alla raccolta di crediti formativi o a valutare, in modo più o meno inquisitorio, l’attività di chi è costretto, nella migliore delle ipotesi, a rispettare esigenze amministrative di “referaggio”. Come stupirsi se, anziché punto di partenza per porsi nuovi interrogativi, Wikipedia diventa il non plus ultra a cui attingere per copiare tesi di laurea? Sembra trionfare così quella che nel 1908 un intellettuale ebreo di origine ungherese, Ludwig (Lajos) Hatvany, definì la scienza di ciò che non vale la pena conoscere: Die Wissenschaft des nicht Wissenswerten.