23 novembre 1980: una ferita ancora aperta - Le Cronache
Cronaca Attualità

23 novembre 1980: una ferita ancora aperta

23 novembre 1980: una ferita ancora aperta

Il ricordo indelebile di quella domenica di Carmen Conte

Avevo solo otto anni. I miei fratellini, quattro e cinque. Abitavamo in cima alla salita di Via Velia, proprio di fronte ai cosiddetti Ponti del Diavolo e accanto ai binari della ferrovia. Il nostro palazzo era solito vibrare per alcuni secondi, varie volte al giorno, al passaggio dei treni. Quella domenica sera, eravamo a casa con mia madre e mia nonna, che era venuta a prendermi per andare a dormire da lei. Mio padre era in servizio come vigile urbano proprio all’incrocio tra Via Velia, Via Arce e Via Gonzaga. Potevamo vederlo dalla finestra! Il nostro palazzo era, in un certo senso, ancora in fase di costruzione. Pertanto, dove ora c’è un garage, allora c’era pratica- mente un “vuoto”, diventato, con il tempo, ricettacolo di spazzatura di ogni tipo, da carte e cartoni a igienici per il bagno. La finestra della mia cameretta dava proprio su questa voragine e ricordo che il mio incubo più infernale era proprio il terrore che tutto il palazzo, prima o poi, vi ci sarebbe caduto dentro. Quella sera del 23 novembre 1980, mentre i miei fratelli, Luca e Fortunato saltavano sul letto dei miei genitori, divertendosi a fare capriole in aria e mia madre e mia nonna tiravano dentro il bucato e stiravano, io mi stavo infilando le scarpe. All’improvviso, si sentì un forte boato e contemporaneamente andò via la luce e il palazzo si inchinò verso quella odiata voragine di spazzatura. In quel momento pensai che il mio incubo stesse diventando realtà. Ma, in pochi secondi, il palazzo tornò in- dietro, come per inchinarsi dal lato opposto e, allo stesso tempo, ballava su e giù. All’improvviso, sentii mia madre urlare: “Questo non è il treno, è il terremoto!” Di corsa, nonostante le fortissime oscillazioni, ebbe la lucidità di raccoglierci tutti sotto lo stipite di una porta che dava sul lungo corridoio di 12 metri del nostro appartamento. La stufa a gas era l’unica fonte di luce in quel corridoio le cui le pareti opposte sembra- vano volessero toccarsi. La durata della scossa sembrò un’ eternità! Quando ci parve che la terra si fosse calmata, brancolando nel buio, cercammo scarpe e giacche. Spegnemmo la stufa e ci recammo alla porta d’entrata. Scoprimmo subito che si era bloccata. Non riuscivamo ad aprirla. Il panico! Sentivamo i vicini scendere le scale, impauriti, di corsa… Dall’interno chiedevamo aiuto, pregando qualcuno di trovare nostro padre giù in strada. Lacrime, paura, terrore… Per fortuna, dopo pochi minuti, mio padre arrivò su, ancora in divisa. Dopo vari tentativi, riuscì ad aprire la porta dall’esterno, con la chiave. Ci catapultammo tutti per le scale e scendemmo quei cinque piani alla velocità di un bolide! Una volta usciti dal palazzo, ci imbattemmo in una marea umana. Gente terrorizzata ovunque. Avevamo paura di perderci, ma, mano nella mano, riuscimmo ad arrivare alla nostra auto. Subito ci dirigemmo a casa di mia nonna, nei pressi dello stadio Vestuti. Mio nonno era rimasto a casa con mia zia e il suo bimbo di un anno. Eravamo preoccupatissimi. Mio padre, per la prima ed ultima volta nella sua vita, ebbe una guida spericolatissima e si fece una serie di controsensi per arrivare il più velocemente possibile a destinazione. Giunti nella piazza dello stadio, mio padre ci raccomandò di non muoverci dalla macchina mentre lui andava a cercare gli altri parenti. Per fortuna, li trovò velocemente, tutti miracolosamente illesi nonostante la caduta di un enorme specchio nel loro corridoio. Ci accampammo in auto. Noi nella nostra, i nonni e i miei zii, con il loro piccolo, nella loro. Quello fu l’inizio di una lunga serie di giorni e notti trascorsi in macchina, tra una piazza e l’altra della città. Le scuole chiusero, e con esse, anche i negozi, per un po’ di tempo. Comprammo una radiolina a batterie per ascoltare le notizie. Quando sentimmo di paesi nell’avellinese e in Lucania tragicamente colpiti dal terremoto, ci ritenemmo dei fortunati! Ci furono altre scosse, per fortuna più lievi. Quando fu deciso che si poteva rientrare a casa, ci tornammo con paura e terrore. Per settimane dormimmo tutti nel lettone dei nostri genitori, vestiti, in caso ci fosse stata necessità di scappare ancora. Fortunatamente, da allora non ho vissuto un altro terremoto, ma i ricordi sono ancora molto nitidi e ogni volta che sono seduta ad un tavolo che, per qualche motivo, trema o dondola, istintivamente alzo gli occhi al lampadario per assicurarmi che non oscilli anche lui.

Piccola storia di un interno di famiglia di Alfonso Amendola

Piccola storia di un interno di famiglia. Piccola storia di un’anonima domenica come tante per un ragazzo di 13 anni. Una domenica densa di calcio (per chi ama il calcio). Animata da sonnolenza per la pigrizia indolente del giorno di festa. Ansiosa per gli studenti un po’ last minute per l’interrogazione del lunedì. Rilassata tra cugini e amici. Ad un tratto il pavimento “si muove”. Le 19.34 diventano un marchio di fuoco e poi le urla, il buio improvviso, la paura, il non capire cosa accade. Insomma un tranquillo giorno domenicale si trasforma in un incubo. Gli sguardi degli adulti pronti a rasserenare da un lato e il terrore dei ragazzi dall’altro. Mio padre e mio zio Romano immediatamente organizzano il tutto possibile. Mia madre e mia zia Sandra preparano l’indispensabile. E noi ragazzi dentro un terrore che gradualmente diventa bisogno di fuga. Poi è tutto un frenetico susseguirsi di sensazioni, cose ed accadimenti. Poi è tutto un correre, telefonare, cercar si- curo rifugio, ascoltare i telegiornali, voler capire. Poi le notti sui giardini e le scosse d’assestamento e Zamberletti e l’abbraccio con amici fraterni e le scuole chiuse e la scomparsa di alcuni amici irpini e le macerie e “fate presto” e gli sciacalli e terraemotus. Il terremoto creò per tutti noi un tempo d’infinita angoscia e fragilità. Eppure su ogni cosa respirava un grande senso di umanità. Una sensazione di vera solidarietà. Uno stringersi tutti. Un combattere assieme la paura.

Lo sguardo del cane di Lucia Fiordelisi

Mi trovavo in Via Tasso nel pieno delle mie funzioni veterinarie. Ero a in casa di un amico per effettuare una terapia sul suo cane. Era una strana domenica quella caldissima, un tramonto stordente e lo sguardo inquieto del cane. Ad un tratto il boato, ma io non feci una piega, non avevo capito nulla. Poi, le grida, gli abitanti del centro storico enfatizzano paura e coraggio, le urla e mi ritrovai a trascorrere la notte sul Lungomare, unitamente a tante persone e conoscenti. Le notizie terribili dagli altri paesi giungevano incessanti e io andai subito a controllare lo studio che guarda via Giovanni Da Procida. Non si era mosso nulla, ferri provette bocce, nulla, anche ciò che abitualmente cadeva solo ad uno sguardo. Un ricordo indelebile quella domenica che è rimasta negli occhi di noi tutti.

Finii in orbita in un palazzo di Piazza della Concordia di Francesco Boccia

Ero un ragazzino nel 1980 e quella domenica partecipavo ad una festa di compleanno a casa di un mio amico. Nell’istante in cui si scatenò il terremoto mi trovavo su di un balcone al settimo piano di un palazzo di Piazza della Concordia. Il mondo sembrava girato sottosopra oscillava tutto, strade palazzi alberi. Scappammo via tutti, cercando di raggiungere i nostri genitori, di riunire la famiglia, nonostante le linee telefoniche interrotte. La prima notte la trascorremmo in automobile, un po’ come tutti. Poi ci trasferimmo nei vagoni letto messi a disposizione dalle Ferrovie dello stato. Le scuole chiuse, quel senso di sopravvivenza come nei film, sembrava un gioco per noi bambini, solo perché non era accaduto praticamente nulla, qui in città. In seguito, le immagini, i volti degli sfollati, le macerie, i discorsi dei nostri genitori fecero chiarezza e la festa svanì.

Istanti tragicomici di Francesco Acone

Quella domenica avevo dodici anni ed ero a casa con la bronchite, guardando come un po’ tutti Juve-Inter in TV. Allora non si potevano vedere le partite per intero come oggi e da juventino sfegatato avevo la possibilità di vedere una sintesi della vittoria della mia squadra, contro la quotata Inter. Sarebbe finita due a uno per i bianconeri, ma quel boato sul tiro di Helmut Haller che colpì la traversa. Come tremò la traversa, così tremò il pavimento sotto i miei piedi. Subito dopo bisognava scappare e mi presi un bel calcio nel sedere da mio fratello, poiché mi stavo attardando a cercare una pantofola nel buio. Ricordo il panico degli adulti che sciamavano urlanti per le scale. Di- verse notti trascorsero in auto a piazza della Concordia, ma con un solo desiderio: uscire da quella angusta prigione e giocare a calcio spaziando per tutta la piazza.